Venne inoltre stilata una lista di 17 regole precise cui attenersi, vediamole:

Il Regolamento del carcere Stanford

  1. Deve regnare il silenzio soprattutto durante i periodi di riposo, durante i pasti e ogniqualvolta si trovino fuori dal cortile;
  2. Si deve mangiare solo all’ora dei pasti e si deve finire tutto il pasto;
  3. Tutte le attività della prigione devono coinvolgere tutti i detenuti, nessuno escluso;
  4. I prigionieri devono sempre pulire la propria cella: letti rifatti e pavimenti immacolati;
  5. Assolutamente vietato spostare, deturpare o danneggiare pareti, finestre e qualsiasi proprietà della prigione;
  6. Accendere o spegnere la luce in cella non è competenza dei detenuti;
  7. Nessun nome dovrà riecheggiare all’interno della prigione: i detenuti devono rivolgersi l’uno all’altro solo con il numero di matricola;
  8. I detenuti devono sempre rivolgersi alle guardie chiamandole “signor agente penitenziario”;
  9. La situazione che stanno vivendo non deve mai essere chiamata ne pensata in termini di “esperimento” o “simulazione”: sono reclusi fino al loro rilascio
  10. Solo 5 i minuti che sono concessi per i servizi igienici e anche lì saranno controllati dalle guardie;
  11. Assolutamente vietato fumare nelle celle: quello che era un vizio, nella realtà esterna, è divenuto un privilegio.
  12. Tutte le lettere in arrivo o in partenza saranno sempre controllate e se necessario sottoposte a censura;
  13. I detenuti potranno incontrare un visitatore all’ingresso del cortile ma non saranno mai lasciati soli dal momento che la guardia oltre a sorvegliare potrà porre fine alla visita a sua discrezione;
  14. Alzarsi in piedi ogniqualvolta entrino nell’edificio il Direttore, il sovrintendente della prigione o qualunque altro visitatore;
  15. Anche gli ordini seguono una loro gerarchia: l’ordine di una guardia annulla qualunque ordine scritto. Gli ordini sia scritti sia quelli della guardia si annullano per privilegiare l’ordine del Direttore. Gli ordini del sovrintendente della prigione sono supremi;
  16. I detenuti hanno l’obbligo di riferire alle guardie ogni violazione delle regole;
  17. Il mancato rispetto di qualunque regola, precedentemente elencata, è severamente punita.

E’ tutto pronto e, con queste premesse, la mattina del 15 agosto 1971, con la collaborazione della polizia di Palo Alto, si assistette ad una vera e propria retata per le strade della città, i prigionieri sapevano solo di doversi rendere reperibili di domenica: ciò che non avevano ancora saputo era che sarebbero stati incarcerati in un luogo sconosciuto e che avrebbero vissuto da prigionieri.

Vennero sottoposti al trattamento previsto da protocollo nei casi di arresto, quindi fotografati, identificati, spogliati, cosparsi di disinfettante e fotografati nuovamente.

Privati di ogni effetto personale, indossavano una divisa che riportava il loro numero di identificazione sia sul petto che sulla schiena. Non era concesso indossare biancheria intima, sul capo dovevano tenere una calza di nylon al fine di nascondere le differenze di capigliatura, dovevano inoltre indossare alla caviglia una pesante catena.

Questa procedura aveva l’intento di indurre disorientamento e depersonalizzazione per giungere alla riduzione del senso di identità dei soggetti.

Ma qualcosa non andò come previsto…

Presto, le persone coinvolte, cominciarono a immedesimarsi nei ruoli loro assegnati: un giorno e mezzo più tardi uno dei detenuti presentò segni di squilibrio, cominciò ad urlare e a strapparsi il camiciotto di dosso, a inveire e imprecare violentemente contro le guardie.

Il giorno seguente, quindi a soli 48 ore dall’avvio all’esperimento Stanford, la protesta fra i detenuti si allargò; inveivano tutti contro le guardie, si barricarono nelle celle rifiutandosi di uscirvi e, molti, arrivarono a strapparsi la divisa da carcerato che indossavano.

 

Le rappresaglie da parte delle guardie non tardarono a manifestarsi: costrinsero i detenuti a restare nudi e intimarono loro di usare un solo secchio per evacuare, senza che potesse più venir svuotato. I carcerati si ritrovarono così ben presto a condividere la cella con un olezzo insopportabile e liquami sui pavimenti.

Si assistette in un tempo brevissimo ad una vera e propria escalation che coinvolgeva entrambi i gruppi impegnati nell’esperimento Stanford. Le guardie intendeva spezzare soprattutto il legame che fra i detenuti andava consolidandosi e, per riuscirvi, ricorsero ad ogni mezzo comprese le umiliazioni, le vessazioni, i maltrattamenti psicologici.

La situazione all’alba del quarto giorno pareva fuori controllo: i detenuti erano costretti a cantare canzoncine oscene, a ripulire le latrine a mani nude, e a nulla valsero le proteste, come non misero a segno nemmeno il tentativo di evasione di massa, sventato addirittura dallo stesso professor Zimbardo.

Le guardie avevano ormai sviluppato crudeltà, perfettamente calate nel loro ruolo e consce del significato intrinseco della divisa che indossavano e del valore del gruppo cui si erano convinte di appartenere.

Per contro, i carcerati depersonalizzati dall’innegabile perdita di identità, sopraffatti emotivamente cominciarono a presentare evidenti segni di disgregazione individuale e collettiva.

Ad un’analisi dello stesso professore i detenuti parvero soccombere a soli 6 giorni dall’inizio dell’esperimento Stanford: essi infatti apparivano docili, rassegnati, passivi. Il rapporto con la realtà che stavano vivendo appariva compromesso da una serie di disturbi emotivi sopraggiunti.

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