Il 23 ottobre 1985, con 253 giorni di processo alle spalle, la giuria emette il verdetto impiegandoci meno di quattro ore: O.J. Simpson è innocente, perché tecnicamente non esistevano elementi per condannare Simpson.
Quello che venne definito “il processo del secolo” ebbe una cassa di risonanza tale per cui spaccò letteralmente l’opinione pubblica in due, come mai accaduto prima. Colpevolisti e innocentisti si scontrarono in tutti i terreni mediatici.
O.J. Simpson era davvero innocente? Davvero le indagini furono condotte da persone la cui professionalità venne obnubilata da becero razzismo? Oppure O.J. Simpson pur essendo colpevole non avrebbe potuto pagare la sua pena perché simbolo dell’America democratica e, soprattutto, O.J. Simpson non pagò il suo debito con la giustizia perché nero e ricco?
Verosimilmente per qualcuno questa storia di morte e “libertà” non dovrebbe avere più peso, forse per altri potrebbe anche andar bene che abbia pagato parte del suo debito con i 9 anni senza condizionale per furto con scasso.
Ma per altri ancora potrebbe invece sorgere spontanea una domanda: un grandioso Paese come l’America, così pregna di democrazia da potersi permettere di esportarla, come può aver ceduto al ricatto implicito nella linea difensiva del Simpson retrocedendo? Perché l’America di Troy Anthony Davis non si fece tutte queste remore nel mandare a morte del 2011 un imputato, dichiaratamente minorato mentale, afroamericano, nonostante nel 2007, il Comitato per la grazia della Georgia chiamato a pronunciarsi sul caso, espresse forti dubbi, raccomandando di non procedere all’esecuzione «qualora vi fossero dubbi sulla colpevolezza dell’accusato»?
Lucia Codato