(foto fonte web)

(foto fonte web)

(foto fonte web)
(foto fonte web)

È passata solo qualche settimana dall’ultimo episodio di sversamento di petrolio nel Mar Mediterraneo.

Il cosiddetto “oro nero” ha colpito sulle coste di Gela (Caltanissetta), anche se dovrebbe essere soprannominato più propriamente “morte nera”. Il petrolio, infatti, è un idrocarburo derivante dalla decomposizione di organismi morti del passato, come le grandi foreste che ricoprivano le Terra nel periodo chiamato, appunto, “Carbonifero”; per milioni di anni la natura lo ha trattenuto sapientemente sotto migliaia di metri di sedimento. Poi però è arrivato l’uomo, capace di estrarne la parte più superficiale per ricavarne profitti economici. È così che la morte ha iniziato a creare altra morte.

Il guasto

Il 3 giugno scorso circa una tonnellata di greggio emulsionato con acqua è stato riversato nel fiume Gela a causa di un guasto tecnico all’impianto “Topping 1” presso la raffineria locale dell’Eni, coprendo il fiume per centinaia di metri e arrivando fino alla foce. La perdita sarebbe stata bloccata dopo un’ora e causata dalla rottura di uno scambiatore di calore asservito all’impianto, al mancato funzionamento della valvola di sicurezza e alla cattiva gestione delle manovre di sicurezza.

Carenze sicuramente troppo numerose, anche se, per fortuna, gran parte del petrolio è stata recuperata prima che potesse espandersi nel mare. L’impianto è stato sequestrato e si è provveduto ad aprire un’inchiesta per disastro colposo e danneggiamento aggravato.

Nuova piattaforma

Eppure, nonostante la tragedia sfiorata, l’Eni e l’Edison vogliono creare una nuova piattaforma “Vega B” a pochi chilometri dalla preesistente “Vega A” a largo di Pozzallo (Ragusa), creando una nuova bomba a orologeria nel nostro mare.

Non sono da sottovalutare i molteplici rischi connessi alla salute umana quali irritazioni, problemi a vari apparati e tumori. Preoccupante è anche l’esplosione di malformazioni genetiche dei nuovi nati a Gela, fino a sei volte più numerose che nel resto d’Italia.

(foto fonte web)
(foto fonte web)

Inoltre, il Mediterraneo è un mare molto ricco di biodiversità, e così anche gli effetti dell’inquinamento su di essa sono devastanti. Il petrolio, infatti, con il suo nero mantello, blocca l’ingresso dei raggi solari nel mare e impedisce lo scambio di ossigeno, provocando la morte delle creature marine. Tra le più colpite vi è l’avifauna, che ostenta tragici effetti quali l’incollamento delle penne e la morte per annegamento, nonché l’ipotermia dei pochi esemplari che riescono a raggiungere la terraferma.

Altri fattori inquinanti 

Purtroppo, il nostro è un mare particolarmente “stressato” dall’inquinamento da idrocarburi. Ciò, però, non è dovuto solo agli incidenti, tra cui i peggiori sono senza dubbio quelli della nave cisterna “Haven”, da cui nel 1991 si liberarono decine di migliaia di tonnellate di idrocarburi nel mar Ligure, delle petroliere “Erika” e “Prestige”; ma è dovuto anche agli scarichi delle oltre 200.000 navi che circolano annualmente nel nostro mare.

La più grande fetta di petrolio viene liberata in mare silenziosamente, tramite normali operazioni dei pozzi al largo, quale il lavaggio dei serbatoi, rilasci e perdite durante l’immagazzinamento. Il risultato è che il Mediterraneo ha la più alta densità di idrocarburi a livello mondiale, con una media di 38 mg/metro cubo di catrame, rispetto, ad esempio, allo 0,8 riscontrabile nel golfo del Messico. Il traffico di catrame nel Mediterraneo ammonta a ben 360 milioni di tonnellate annue, che rappresenta il 20% del traffico marittimo mondiale.

Alcune statistiche

A questi dati, si aggiunge una complicazione: il Mare Nostrum è un bacino semichiuso, con tempi di ricambio con l’oceano Atlantico molto lunghi. L’impatto dell’inquinamento risulta quindi amplificato.

Anche se gli incidenti e il rilascio di petrolio greggio attirano l’attenzione del pubblico, il petrolio non deriva solo dalle attività in mare, ma anche da quelle che avvengono sulla terraferma. Gli studiosi stimano che dal 50 al 90% del petrolio immesso nel mare derivi dalle perdite sul terreno e dagli scarichi di petrolio nelle fognature ad opera di città, persone o industrie, compreso il cambio d’olio del motore della propria auto. Un’altra fetta, circa il 10%, deriverebbe da fumi di petrolio bruciato e, quindi, dall’atmosfera.

Una cosa è certa. Le comunità animali impiegano diversi anni per riprendersi dall’inquinamento, soprattutto quando si tratta di petrolio raffinato (benzina, gasolio, ecc.). Il “crimine” assume quindi una portata davvero ampia.

Per quanto riguarda le attività in mare, per fortuna esistono numerosi convenzioni internazionali che regolano il traffico marittimo e le relative attività, nonché organizzazioni e persone che mettono a rischio la propria salute pur di rimediare in parte ai danni causati dall’uomo. Ma, irrimediabilmente, finché si continuerà a usare il petrolio e a rilasciarlo nei diversi comparti ambientali, la morte nera continuerà sempre a diffondere altra morte.

di Salvatore V. Riccobene