(foto fonte web)

(foto fonte web)

(foto fonte web)
(foto fonte web)

Fosse stato ancora vivo, forse il commissario Calabresi avrebbe indagato anche su questo ennesimo episodio di violenza in un periodo cruciale per la storia italiana. Calabresi invece morì pochi giorni prima dell’attentato di Sagrado, in provincia di Gorizia.

La vicenda. Il 31 maggio 1972, alle ore 22:35, arriva una telefonata anonima al centralino del pronto intervento della Stazione dei Carabinieri di Gorizia. Il centralinista di turno, Domenico La Malfa, riceve la chiamata e registra la conversazione. L’uomo all’altro capo del telefono parla con uno spiccato accento dialettale: «Senta, vorrei dirle che x è una machina che la gà due busi sul parabreza. La x è una cinquecento bianca, visin la ferovia, sula strada per Savogna». Viene immediatamente mandata un’auto sul posto.

Sulla volante viaggiano l’appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni: i due trovano subito l’auto sospetta (una Cinquecento appunto, targata GO 45902) e una volta visti i due buchi sul parabrezza, chiaramente causati da un’arma da fuoco, chiamano i rinforzi. Alle 23:05 arriva la prima pattuglia (con a bordo il tenente Taglieri, il brigadiere Ferraro e il carabiniere Poveromo) e dopo pochi istanti ne arriva anche una seconda.

I carabinieri Antonio Ferraro, Donaro Poveromo e Franco Dongiovanni, dopo un attento esame della Cinquecento, procedono all’esame della stessa cercando di aprirne il cofano. Il tentativo provoca l’esplosione dell’auto, che causa la morte dei tre carabinieri, oltre il ferimento del tenente Taglieri e del brigadiere Zazzaro, arrivato con l’ultima volante.

(foto fonte web)
(foto fonte web)

La solita dicotomia. Nello stesso periodo, ricordato come quello della strategia della tensione, c’erano stati altri episodi di terrorismo,  come l’attentato del dicembre del 1969 a piazza Fontana. Come a suo tempo fece Calabresi, il colonnello Dino Mingarelli (seguace di De Lorenzo e invischiato nel tentato golpe del 1964, il cosiddetto “Piano Solo”) punta il dito contro gli esponenti di Lotta Continua.

Le indagini si rivelano un buco nell’acqua e la pista degli eversivi di sinistra viene subito accantonata. La magistratura milanese, in seguito a un interrogatorio con Giovanni Ventura (nel frattempo arrestato per la strage di piazza Fontana), palesa la partecipazione di un gruppo terrorista neofascista; l’informazione non viene tenuta in considerazione dal colonnello Mingarelli, che invece prende di mira sei giovani del posto che si sarebbero voluti vendicare dei carabinieri.

Anche questa pista si rivela errata e Mingarelli viene accusato e condannato per falso materiale e ideologico e per soppressione di prove (il verdetto verrà confermato anche dalla Cassazione nel 1992).

I colpevoli. Diverse accuse sono mosse nei confronti di Giorgio Almirante, segretario dell’MSI che avrebbe avuto un ruolo cruciale nella strage. In seguito alla confessione del 1982 di Vincenzo Vinciguerra, si scoprì che Almirante pagò 35mila dollari affinché Cicuttini, dirigente dell’MSI e autore della telefonata anonima, subisse un intervento alle corde vocali per modificare la propria voce.

Le successive indagini portarono all’incarcerazione di Vinciguerra (tuttora detenuto) e alla condanna di Almirante, che tuttavia venne amnistiato. Cicuttini invece riuscì a fuggire in Spagna: verrà catturato nel 1998 a Tolosa in seguito a un’operazione guidata dalla procura di Venezia.

Sono diverse le interpretazioni sulle ragioni della strage di Peteano. Si pensa a una continuazione della cosiddetta “strategia della tensione”; oppure al segno evidente di una frattura fra Stato e quella “manovalanza oscura” accusata di avere commesso un imperdonabile errore nell’esplosione a piazza Fontana.

In entrambi i casi, le vittime sono dei giovani militari, del tutto innocenti dinanzi alle trame oscure di una storia ancora tutta da scrivere.

di Nicola Guarneri