A quarantuno anni dalla scomparsa del più controverso e discusso commissario di Polizia d’Italia i dubbi sulle sue indagini non sembrano diminuire.
Il tempismo nella vita è tutto: pochi minuti possono cambiare la vita di un uomo, se non addirittura la storia di una nazione. Questo devono aver pensato molti dei poliziotti assiepati fuori dalla stanza in cui il commissario Calabresi stava interrogando Giuseppe Pinelli, uno dei capi degli anarchici sospettato di aver avuto un ruolo principale nell’attentato di Piazza Fontana.
Gli antefatti. Calabresi, poliziotto prima e commissario di Pubblica Sicurezza poi, inizia il suo cammino verso la morte il 25 aprile del 1969. Incaricato di investigare su una bomba esplosa in un padiglione della FIAT alla fiera campionaria di Milano, sottovaluta pericolosamente possibili implicazioni di gruppi che non siano di sinistra. Secondo Calabresi, gli attentati (c’è anche una bomba in Stazione Centrale, che viene fatta brillare dagli artiglieri) sono di matrice anarchica e nemmeno il ritrovamento di un documento che sottolinea l’implicazione di gruppi anticomunisti riesce a fargli cambiare idea.
Piazza Fontana. Il 12 dicembre dello stesso anno la “strategia della tensione” raggiunge il culmine: a Milano esplodono cinque bombe e la più grande, posizionata in Piazza Fontana presso una filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, porta alla morte di diciassette persone.
Ignorando colpevolmente i segnali che spingerebbero le indagini nella direzione opposta, Calabresi insiste con la pista anarchica, fermando 85 sospettati. Uno di questi, Giuseppe Pinelli, viene trattenuto illegalmente per più di due giorni. Alle 23:57 del 15 dicembre, mentre i due sono soli nell’ufficio del commissario, Pinelli cade dal balcone morendo pochi minuti dopo lo schianto al suolo.
Indagini e assoluzione. La prima versione della questura parla di suicidio: il Pinelli, implicato negli attentati e impossibilitato a dimostrare un alibi valido, si sarebbe lanciato dal balcone in preda ai sensi di colpa. La teoria viene smentita poche ore dopo, quando un testimone conferma l’alibi del ferroviere.
Le colpe si dirigono quindi verso il commissario Calabresi, che secondo gli amici del Pinelli, constatata la sua innocenza, avrebbe spinto l’anarchico dal balcone nel tentativo di estorcergli una confessione. L’assoluzione arriverà solo nel 1975, quando il magistrato Gerardo D’Ambrosio constaterà che la caduta era avvenuta in seguito a un malore; troppo tardi perché il commissario possa tirare un sospiro di sollievo.
Il 17 maggio del 1972 alle 09:15 del mattino Calabresi viene assassinato di fronte alla sua abitazione da due sicari che gli sparano alle spalle. Se Calabresi avesse potuto investigare sul proprio omicidio e puntare sulla pista anarchico/comunista, in questo caso ci avrebbe preso alla grande: i due assassini, Leonardo Marino e Ovidio Bompressi, agirono sotto il mandato di Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, due ex-militanti ed ai vertici di Lotta Continua.
di Nicola Guarneri