Il giorno 1 aprile 2013 (lunedì di Pasqua) una giovane madre, Francesca Sbano di 32 anni, di Carovigno (Brindisi), ha ucciso la figlia e si è poi tolta la vita.
La donna, bracciante agricola, da dicembre viveva da sola assieme alla figlia nell’appartamento di proprietà, dopo essersi separata dal marito, anche lui bracciante agricolo. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la donna ha fatto ingerire alla figlia, la piccola Benedetta di 3 anni, del diserbante. Tracce del diserbante sono state trovate anche vicino al corpicino e la bottiglia vuota è stata ritrovata nel cestino della cucina. La donna si è poi suicidata lanciandosi nel vuoto dal secondo piano, dal terrazzo.
Francesca Sbano ha anche lasciato una lunga lettera in cui aveva esplicitamente manifestato l’intenzione di uccidersi e di portare via con sé la figlia.
La motivazione, anche se non chiaramente esplicitato nella lettera, andrebbe ricercata, secondo gli inquirenti e le testimonianze delle persone vicine alla donna, nella disperazione della stessa a seguito dalla separazione dal marito, padre della piccola. Sembra che Francesca Sbano non abbia mai accettato la decisione del marito di separarsi da lei.
Quello che è accaduto a Carovigno, è l’ennesimo caso di uno dei tanti drammi che si consumano all’interno delle mura domestiche e che in Criminologia prendono il nome di “figlicidio”.
Davanti a casi come questo non possiamo non fare una riflessione: l’attenzione crescente per il fenomeno, trova sempre maggiore interesse nella comunità scientifica e nei mass media, interesse che spesso viene strumentalizzato e spettacolarizzato rischiando di perdere di vista il reale significato del lato patologico che sotto sta nelle relazioni affettive che si concludono così tragicamente.
Aspetti criminologici
Il termine “figlicidio” indica l’uccisione del proprio figlio da parte della madre o del padre.
Il Codice penale italiano non riconosce al figlicidio un’entità giuridica autonoma, come fa per il reato di infanticidio nell’art. 578, ma lo identifica nel reato di omicidio.
In quei casi la relazione vittima-autore, al contrario di altre forme omicidiarie è molto più complessa, come lo sono la dinamica dell’evento, la percezione dei ruoli, la complessità della dimensione valoriale interna al gruppo familiare e ai contesti di riferimento, tale da aprire a numerose e contraddittorie chiavi interpretative.
Viviamo molto probabilmente in una visione sociale materna ovattata in cui le madri sono vittime di pressanti miti sociali: il mito dell’infinita devozione materna attribuisce loro una capacità affettiva illimitata, trasformandole nella spina dorsale della stessa società che le ignora. Ma tutte le immagini create dalla società, possono impedire alle donne di avere la consapevolezza che in quanto madri si è anche esseri umani con le gioie i dolori e le debolezze di ognuno di noi.
Casi come quest’ultimo di Carovigno, che nel gergo criminologico rientrano nella categoria che viene detta “suicidio allargato”, ci permettono di identificare una tipologia particolare di madri che hanno deciso di porre fine alla propria esistenza al termine di una sofferenza divenuta insopportabile, e che nella loro disperazione decidono di portare con sé il figlio o, come in questo caso, la figlia.
Sono madri che vivono una situazione depressiva senza speranza, senza possibilità di ricevere aiuto da nessuno, con idee di indegnità e convinte che loro figlio, o loro figlia, non potrà vivere in un mondo così ostile senza di loro.
L’omicidio del figlio, si configura patologicamente, nella mente della madre come un atto di natura “altruistica”, legato, ad un proposito di “difendere” il figlio stesso e dunque, sottrarlo, con la morte, a un destino di privazioni, miserie, umiliazioni, rinunce, insuccessi.
Vittime di questo tipo di omicidio sono i figli più piccoli, appunto perché ritenuti meno idonei ad affrontare da soli le presunte avversità della vita. In questi casi si ha spesso premeditazione dell’atto, le madri spesso lasciano lettere o biglietti in cui spiegano le loro intenzioni.
Ciò che più sconcerta di questi eventi è che sia per le persone vicine a queste madri che mettono in atto tale comportamento di “suicidio allargato” , che per l’opinione pubblica, è che sembrano irrompere nella routine della quotidianità come un fulmine a ciel sereno.
Invece, ripercorrendo le storie di vita di queste donne e analizzando le motivazioni al delitto, è possibile identificare quelli che possiamo definire degli indici psicopatologici “predittori” di reato: la patologia mentale molto spesso, tenuta taciuta o forse nemmeno nota persino alle persone più prossime alla madre assassina, nella maggioranza dei casi è il vero movente in questa tipologia di omicidio. Si tratta per lo più di gravi forme psicotiche come schizofrenia o depressione maggiore.
Nelle depressioni accanto ai sintomi classici e all’ideazione suicidiaria, non bisogna sottovalutare le preoccupazioni ingiustificate per la salute del bambino, il timore di non saperlo accudire, la difficoltà a pensare e prendere decisioni. Atteggiamenti patologici caratterizzanti soprattutto il modo di pensare e agire di quelle donne che hanno vissuto, proprio come nel caso di Carovigno, un abbandono da parte del coniuge.
Queste donne, come Francesca Sbano appunto, vivono catastroficamente l’abbandono da parte del coniuge, dal quale si sentono e sono fortemente dipendenti, molto spesso anche dal punto di vista economico, e dunque la mancanza del suo supporto, e la disperazione per non poter più provvedere più adeguatamente alla propria esistenza e a quella del proprio figlio le fanno maturare la convinzione di togliersi la vita e portare con sé nella morte anche il figlio.
Per quanto detto è doveroso distinguere il caso di “suicidio allargato” di Carovigno, da un’altra tipologia di figlicidio, per la quale l’uccisone del figlio si configura come una sorta di vendetta nei confronti del partner abbandonico. Si tratta di quella che in Criminologia è nota come la “Sindrome di Medea” dal mito greco di Medea, che uccise i propri figli per vendicarsi del marito.
In questi quadri patologici, la madre crede di potersi appunto come Medea, vendicare del marito che lascia il nido famigliare e che quindi nega l’amore, l’accudimento e il sostentamento, provocandogli un enorme dolore e lo fa uccidendo il figlio. Anche in casi come questo c’è premeditazione dell’atto e può evidenziarsi da parte della madre assassina un’assoluta anestesia psichica ed emotiva dopo il fatto, al quale in genere non segue il suicidio.
Dunque, le risposte ai perché di tali eventi, che ai nostri giorni sempre più prepotentemente occupano le cronache mediatiche, sono spesso complesse e contraddittorie, e proprio per questo l’esigenza di un approfondimento scientifico su questi fenomeni è sempre più necessaria.
di Francesca De Rinaldis