Trelkovsky, mite quarantenne, va a vivere in affitto in una topaia appena liberatasi per il suicidio (e la conseguente morte in ospedale) dell’ex inquilina. Presto avrà a che fare con dei vicini di casa particolari.
Il ritorno di Roman Polanski sul luogo del delitto (il condominio che è ovviamente situato, nell’immaginario cinematografico, l’isolato accanto a quello infernale di “Rosemary’s Baby”) avviene stavolta in Francia, un anno prima di quel suo sciagurato 1977 che è recentemente tornato agli oneri della cronaca a causa del suo arresto (a margine, una notizia che è stata anch’essa presa da alcuni quotidiani italiani e strumentalizzata a fini politici, per la serie “chi è con Polanski è di sinistra”; che paese del cazzo).
Il film è ambiguo, angosciante, contorto, debitore di parecchie citazioni ai maestri della suspense (Hitchcock su tutti) e comunque portatore di una ventata di originale inquietudine che formerà poi il significato dell’aggettivo “polanskiano”.
L’incubo del quotidiano, caposaldo della poetica del regista, trascende (scade?) nel metafisico e nell’irrazionale vent’anni prima delle strade perdute di David Lynch, con esiti inferiori alle promesse: se i primi sessanta minuti sono impeccabili per tenuta narrativa, semina del pathos e incisività delle classiche punte grottesche polanskiane, la seconda parte si avvita in un lungo delirio da cui non è escluso neanche qualche effettaccio.
Polanski si auto-analizza ponendo se stesso al centro della scena: un personaggio polacco, con ambizioni da regista (possiede una cinepresa che gli viene rubata), angariato dai colleghi (sfumature razziste), fondamentalmente solo con i suoi fantasmi.
Regista geniale e problematico, e non tocca qui giudicare l’uomo.
L’inquilino del terzo piano
(Roman Polanski, 1976)
genere: Thriller
http://cinema-scope.org/
recensione di Giuseppe Pastore