All’inizio degli anni ’90 Giulio Andreotti ottiene il settimo mandato alla presidenza del Consiglio e cova in gran segreto la speranza di salire al Quirinale.
Paolo Sorrentino fa due, tre, tanti passi avanti: d’ora in poi non sarà più la brillante e piaciona promessa de “Le conseguenze dell’amore”, ma l’artista che è brillantemente riuscito nell’impresa di regalare a Giulio Andreotti l’immortalità artistica (quella politica già c’è, e sospettiamo anche quella fisica); un’immortalità che tuttavia non si preoccupa minimamente di scalfire l’enigma-Andreotti, anzi lo rinfocola alimentandolo con le proverbiali battute del protagonista (moltissime delle quali autentiche, tra cui quella raggelante sul fioretto per la liberazione di Moro).
Per questo film, indubbiamente politico e di conseguenza portatore insieme a “Gomorra” di un vento nuovo e benvenuto nell’afoso panorama nostrano, sono stati scomodati illustri antenati, Petri su tutti; ed in effetti pare di scorgere lo stesso gusto per il grottesco sopra le righe e per la metafora (lo skateboard che irrompe a Montecitorio, geniale presagio).
Il momento più alto e potente del film è tuttavia ripulito da ogni figura retorica e discorso indiretto: lo spietato mea culpa a cui Andreotti si sottopone arriva a squarciare a metà il velo della doppiezza e dell’ambiguità e scuote il pubblico come un urlo liberatorio. Un film che rifugge le banalità e le convenzioni da biopic per una narrazione a balzi e scatti fortemente irregolare; impossibile del resto trarre un feuilleton ottocentesco dalla vita grigia e impiegatizia di Andreotti.
La decisiva collaborazione di Giuseppe D’Avanzo rende altrettanto solide e potenti le ricostruzioni cronachistiche sulle testimonianze mafiose e le eventuali responsabilità negli omicidi illustri dell’epoca della strategia della tensione. Tecnicamente un capolavoro, anche troppo: Sorrentino gira da dio e ci tiene da morire a darlo a vedere, caricando d’enfasi e importanza ogni dettaglio. Straordinari titoli di testa e classico stridore audio-visivo sorrentiniano, provocato stavolta dalla martellante “Toop Toop” di Cassius.
Toni Servillo si eleva oltre la stratosfera (l’essenza della sua grande prova d’attore sta nel sorrisino del tutto naturale con cui reagisce alla battuta di Grillo in tv), ma il resto del cast segue a breve distanza: si citino il Cirino Pomicino del sorprendente Carlo Buccirosso e la Lidia di Anna Bonaiuto, magnifica co-protagonista di quello che è il momento più intimo, crepuscolare e perciò surreale del film (qual è? Chi l’ha visto ha già capito). A parte i soliti virtuosismi che stanno ormai diventando marchio di fabbrica sempre più tollerabile, è così che si fa cinema nel ventunesimo secolo.
Un cinema a cui l’Italia non è ancora pronta.
Il divo
(Paolo Sorrentino, 2008)
genere: Politico
http://cinema-scope.org/
recensione di Giuseppe Pastore