(foto fonte web)
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Roger “Verbal” Kint è uno dei due superstiti di una tentata rapina a una nave ormeggiata nel porto di San Pedro, finita in strage. A lui si affida la polizia di Los Angeles per scoprire il mandante e l’esecutore del massacro.

Rarissimo caso di film fondato su un gigantesco imbroglio, un vero e proprio inganno allo spettatore al quale, più che una falsa pista, si dà in pasto una falsa storia. Fruttò un Oscar (meritato? ma sì) alla sceneggiatura di Christopher McQuarrie (del quale, da lì in poi, si sono perse le tracce, come fosse un Keyser Soze qualsiasi), alla quale va ascritto quasi interamente il merito del buonissimo risultato di un film che ha spostato di molto in avanti la soglia di tollerabilità del fattore colpo di scena al cinema.

Bryan Singer, non ancora autore di blockbuster di successo, si applica per distinguere “I soliti sospetti” dalla media dei banali gialli-thriller, ma la sua regia passa sotto traccia al cospetto di una storia volutamente (è questo il bello) cervellotica e difficile da seguire. Qualsiasi presunto messaggio o significato nascosto, perciò, è completamente inutile. La chiave del film sta nell’interrogatorio del marinaio in ospedale, a patto che voi conosciate l’ungherese.

Il 1995 fu l’anno dell’esplosione di Kevin Spacey che, oltre all’Oscar come “Verbal” Kint, diede anche corpo al memorabile personaggio di John Doe in “Se7en”, nel miglior finale di film degli anni ’90.

I soliti sospetti (Bryan Singer, 1995)
genere: Thriller

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recensione di Giuseppe Pastore