Il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro fu rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse, che lo uccisero il 9 maggio successivo. Qui si racconta ciò che sarebbe potuto accadere.
L’unico vero capolavoro del cinema italiano in questo inizio di secolo è opera di un vecchio maestro che, a sessant’anni suonati, ha ritrovato il talento di far coabitare le sue storiche inquietudini politiche col piacere di una narrazione piana e limpida, dopo il lungo e nebuloso periodo di collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli.
A scanso di equivoci, “Buongiorno, notte” (verso di Emily Dickinson che è anche il titolo di una sceneggiatura ritrovata nella borsa di Moro) non è e non vuol essere cronaca fedele delle cinquantaquattro notti trascorse da Aldo Moro nella prigione dell’interno 11 di via Gradoli 96 a Roma: è piuttosto una visione alternativa della Storia ufficiale sotto forma di psicodramma domestico tipicamente bellocchiano, che nel finale cede il passo all’immaginazione come sistema di fuga dalla realtà.
A parte l’inizio e la fine (rapimento e uccisione) succede poco e nulla, le notizie arrivano dai telegiornali e il resto è attesa, travaglio, congetture varie da cui emergono altrettante contraddizioni, dei duri e puri che festeggiano il Capodanno con Montesano alla tv. Nel rigore quasi brigatistico (passateci l’aggettivo) del cinema di Bellocchio, che pure non gli ha impedito un discreto successo di pubblico, è la miglior lezione di storia mai impartita dal recente cinema italiano, che ama (sa fare solo quello) guardare al passato con grande abbondanza di macchiette e luoghi comuni.
Magnifico Roberto Herlitzka, ma i veri protagonisti sono gli occhi neri di Maya Sansa. Perfetta la scelta delle musiche, che partecipano e arricchiscono le sequenze migliori: “Fischia il vento” e i Pink Floyd per la lenta e dolorosa presa di consapevolezza di Chiara, e per il finale onirico il Momento Musicale n.3, uno degli Schubert più soavi.
Buongiorno, notte
(Marco Bellocchio, 2003)
genere: Politico
http://cinema-scope.org/
recensione di Giuseppe Pastore