Chi ricorda Il cerchio, film del 2000 che ha ottenuto un roboante successo al Festival di Venezia, portando a casa il prestigioso Leone d’Oro? Chi si ricorda del regista di quel lungometraggio, un iraniano di soli quarant’anni che aveva avuto il coraggio di raccontare la controversa società del suo Paese, evidenziando soprattutto la difficile condizione della donna? In pochi, pochissimi, avranno ancora in mente il nome di Jafar Panahi, un grande regista che ha dovuto girare tra le sue mura domestiche il suo ultimo film, Closed courtain (Tenda chiusa), in quanto condannato agli arresti domiciliari per motivi politici.
La storia di Panahi – a cui Il Corriere della Sera dedica un ottimo reportage di Valerio Cappelli – comincia all’università di Teheran, dove studia cinema e realizza i primi cortometraggi. Nel 1997 si fa notare per il film politico Lo specchio, dove parla per la prima volta del ruolo della donna in Iran, rappresentando la figura femminile come oppressa dalla morale islamica (vince il Festival di Locarno). Successivamente arriva il già citato Il Cerchio, Leone d’oro a Venezia, con protagoniste otto donne finite in carcere nel paese mediorientale. Il film successivo, Oro rosso, riscuote successo in Europa, ma viene proibito in patria, così come Offside (2006) che vince il Gran Premio della Giuria a Berlino, ponendo ancora una volta in primo piano la difficile condizione delle donne in Iran.
Si tratta dell’ultimo film ufficiale del regista, che nel febbraio del 2010 viene arrestato dalle autorità del suo Paese per aver partecipato a una manifestazione organizzata contro il regime islamico. Il mondo del cinema internazionale si muove per ottenerne una scarcerazione immediata e lo stato iraniano decide di concederne la liberazione su cauzione pochi mesi dopo l’arresto. Nel dicembre dello stesso anno, però – quando i riflettori internazionali sul caso Panahi si sono pericolosamente abbassati – il regime dell’Iran effettua una nuova condanna sul regista, costretto a sei anni di reclusione, accompagnati dall’assoluto divieto di girare, scrivere e produrre film per vent’anni.
Panahi però non si arrende, sceglie un titolo provocatorio per un’opera dell’anno successivo, This is not a film (Questo non è un film), mentre tra le mura di casa realizza Closed courtain. Il regista, infatti, non è recluso nelle carceri di Teheran, bensì in “libertà vigilata, controllata, spiata” ai domiciliari, come scrive Cappelli. Una sfida aperta al regime, che gli aveva imposto di non girare film, quest’ultimo lungometraggio è stato presentato la scorsa settimana al Festival di Berlino, dove è stato rappresentato da Kamboziya Partovi, attrice e co-regista. Nell’articolo del Corriere, compaiono alcune anticipazioni sul film da parte della protagonista femminile Maryam Moghadam, che fanno capire che ancora una volta al centro della scena ci sarà un ragazza iraniana che “lotta per la speranza”.
“Non è un film contro il regime” fanno sapere i portavoce di Panahi, del quale dicono: “Per lui è difficile star chiuso in casa, ha pensato che il film fosse importante per continuare a essere creativi, giusto per fare un’attività”.
Il cinema iraniano degli ultimi anni non si può più nascondere, è diventato una realtà artistica ormai a livello mondiale. Basta citare Una separazione, opera di Asghar Farhadi che nel 2011 ha vinto addirittura l’Oscar come miglior film straniero e che in Italia è stato snobbato dalle grandi case cinematografiche e sul quale ha creduto il solo Nanni Moretti con la sua piccola Sacher distribuzione. Altro esempio, la grandissima Marjane Satrapi, disegnatrice di graphic novel, che sull’Iran, ha diretto insieme a Vincent Paronnaud il capolavoro Persepolis e la commedia Pollo alle prugne (tutti e due presi da suoi fumetti), mentre a breve dovrebbe uscire The gang of the jotas. Per sfuggire alla sorte toccata a Panahi, la Satrapi si è spostata a Parigi, dove lavora e vive ormai stabilmente.
Il lavoro di Panahi fa sorgere un dubbio amletico: scegliere la legalità o la legittimità? La legalità gli imporrebbe di non girare più film, per quanto possa non ritenere giusta una simile condanna e per quanto sia – appunto – legittimo continuare a produrne. Panahi ha scelto la legittimità, ha scelto di sfidare il regime, per quanto a parole non voglia (e non possa) dirlo. Il Festival di Berlino ha risposto con l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura, ora si aspetta la risposta delle sale italiane. Perché quella tenda non resti chiusa, ma venga riaperta per sempre.
di Luca Romeo