«L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E allora perché lo Stato non mi aiuta a trovare lavoro? Perché non mi toglie da questa condizione di disoccupazione? Perché non mi restituisce la dignità? E allora se non lo fa lo Stato lo debbo fare io. Mi tolgo io dalla condizione».
Sono queste le parole scritte di pugno dal 61enne trapanese Giuseppe Burgarella, prima della sua tragica fine.
Una corda stretta intorno al collo nel nome di quel primo articolo, perché prima di lui ci aveva pensato lo Stato a soffocare un suo diritto; il diritto al lavoro, quello per cui occupava le prime file del direttivo provinciale della Fillea, il sindacato degli edili.
Ha marcato il suo addio su una copia della Costituzione; lui, da sempre partigiano della stessa, difensore di quella Carta dei diritti e dei doveri che regola la vita del nostro Paese. Sembra, però, che il sistema italiano, più che regolare la vita di Giuseppe, abbia incentivato la sua morte.
Schiavo di un incontenibile disagio esistenziale, dal quale difficilmente poteva venir fuori, ha voluto “liberarsi” per sempre dalla condizione di disoccupazione, gridando in maniera ancora più forte la sua disperazione alle istituzioni.
Aveva già provato, forse in maniera meno incisiva, a rivendicare quell’utopico diritto, rivolgendosi al segretario generale del suo sindacato, Susanna Camusso ed al Presidente della Repubblica. Ma, ad attendere risposta non ce la faceva più.
“Viveva la disoccupazione come una possessione – afferma il fratello-. L’unica cosa che lo faceva sentire realizzato era il lavoro”. Una vita trascorsa come operaio del marmo, fino al suo ultimo contratto, quello del 2000, momento in cui la cooperativa per la quale lavorava inizia a lasciare a casa i suoi dipendenti per la crisi. Non era tanto la sua condizione economica di 700 euro al mese a pesargli, quanto la sofferenza per l’inattività. Il sacrificio lo avrebbe nobilitato, se solo la forza delle sue braccia, ormai ferma da anni, avesse trovato nuova occupazione.
Il suo atto di accusa: «Senza lavoro non ho dignità», pesa, come un macigno, sulla coscienza di tutti “noi”, responsabili di un ennesimo suicidio. Giuseppe scrive il suo nome alla fine di uno straziante elenco di “morti per disoccupazione” negli ultimi due anni, con lo scopo di far aprire gli occhi ad uno Stato che sembrerebbe essere volontariamente cieco, oltre che sordo, dinanzi al crescente tasso di suicidi per mancanza di lavoro.
Voleva che il suo grido disperato riecheggiasse tra i piani alti del nostro sistema e di questo ne è sicuro Franco Colomba della Fillea di Trapani: “Sono convinto che lui voleva che se ne parlasse. Per evitare che altri facciano la sua fine”. La preoccupazione, infatti, è quella che un ennesimo suicidio per mancanza di lavoro, non faccia più notizia.
Affinchè questo non diventi un gesto classificabile come “normalità quotidiana ai tempi della crisi”, l’ asettica conseguenza di una condizione irrisolvibile, abbiamo l’obbligo di ricordare il suo nome:
Giuseppe Burgarella, suicida nel nome della Costituzione.
di Annalisa Ianne