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Che cos’è l’articolo 18? L’articolo 18 è un diritto fondamentale dei lavoratori italiani, è uno dei punti più salienti del nostro Statuto dei Lavoratori (conquistato con molta fatica e dopo molta violenza, agli sgoccioli dell’autunno caldo del 1969), è la tutela reale che cancella il licenziamento senza giusta causa, quello illegittimo e quello dovuto a discriminazioni di ogni natura. L’articolo 18 è il salvagente di ogni lavoratore. E allora perché, da una decina di anni a questa parte, ogni governo tenta di modificarlo e limitarlo?

A riuscirci per primo, nel 2008, fu l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che con il decreto legge n. 138 del 13 agosto (ancora rintracciabile online) inseriva nel nostro ordinamento “misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”. Il punto che riguarda l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è il quasi omonimo articolo 8 di questo decreto legge, che riguarda il piano di progresso su “specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione e alla migliore qualità dei contratti di lavoro”, circa i contratti collettivi.

Tra queste misure, spiccano gli ormai tristemente celebri “contratti a termine e contratti a orario ridotto, modulato o flessibile”, fino ad arrivare alla possibilità di “recesso del rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il matrimonio”. Tutti gli altri, sono potenzialmente licenziabili.

Dopo il governo Berlusconi, come si sa, è stata la volta dei professori e questa volta l’articolo 18 è stato messo in discussione da uno dei ministri meno apprezzati dall’opinione pubblica, Elsa Fornero. Le modifiche tecniche, riguardavano soprattutto l’obbligo di reintegro per il lavoratore licenziato illegittimamente, sostituito con un risarcimento economico pari alla retribuzione fino a due anni.

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Considerato che solo in casi specifici il risarcimento avrebbe coperto un lasso di tempo così ampio, l’alternativa al reintegro rischiava di essere poco più che un contentino, che sarebbe bastato per massimo un anno, mentre si sa che i tempi della disoccupazione, oggi possono essere ben più lunghi. L’eventuale risarcimento (come l’eventuale reintegro) sarebbero sempre e comunque decisi da un giudice super partes.

A questo punto, per salvaguardare quello che è un diritto fondamentale del lavoratore italiano, nel settembre del 2012 cominciano a muoversi alcune associazioni, spalleggiate da partiti politici tutti facente parti dell’area di sinistra. Tra questi, in prima fila c’erano i leader di Italia dei Valori Antonio Di Pietro e di Sel Nichi Vendola, il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero e il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, insieme ai sindacalisti Gianni Rinaldini (Cgil), Francesca Re David (Fiom) e Gian Paolo Patta (Cgil), i giuristi Pier Giovanni Alleva e Umberto Romagnoli e il segretario del Pdci Oliviero Diliberto. L’obiettivo è raggiungere le 500mila firme e ottenere per via popolare un referendum abrogativo che cancelli le limitazioni all’articolo 18 sia di Berlusconi, sia della Fornero.

A dicembre, questo muro viene sfondato, con le firme certificate che superano il milione. Sembra una grande vittoria per i lavoratori, eppure il referendum non si può fare a causa della caduta del governo Monti e dello scioglimento anticipato delle Camere. Polemico il commento di Ferrero: “Il referendum ci è stato scippato dal fatto che il presidente Napolitano abbia sciolto il Parlamento il 31 dicembre, bastava scioglierlo il 2 gennaio e i cittadini avrebbero potuto votare sui diritti del lavoro, così non è stato”. Rincara la dose Di Pietro: “Presenteremo un ricorso alla Corte Costituzionale”.

Nonostante lo “scippo” – fa sapere l’Ansa – le firme sono state depositate in cassazione il 9 gennaio del 2013. Presenti al deposito gli stessi politici e sindacalisti riuniti in settembre, a eccezione di Vendola.

Se ci sarà (e dovrebbe esserci) ricorso alla Corte Costituzionale, scopriremo se l’articolo 18 è salvo o resterà preda di tagli e limitazioni. Mentre sembra assurdo che la politica non dia la possibilità ai cittadini di esprimersi su una materia così delicata. Anzi, è ancora più assurdo che l’intera classe politica – di destra, di centro e di sinistra – possa solo pensare di modificare quello che è uno dei diritti sacrosanti dei lavoratori italiani.

Di quella repubblica che doveva essere “fondata sul lavoro”.

di Luca Romeo