Il ritrovamento
19 febbraio 1988. Il cadavere viene ritrovato il giorno seguente da un uomo, in via Cruciani Alibrandi, nella zona Portuense nei pressi di una discarica.
La scena che si presenta agli occhi degli inquirenti è raccapricciante: il corpo semicarbonizzato, rannicchiato in posizione fetale con i jeans calati al ginocchio, mani, piedi e collo legati con dello spago da imballaggio.
Appare evidente fin da subito che il cadavere è stato torturato e seviziato.
L’epilogo
Inizialmente le prime indagini si indirizzarono nel giro dello spaccio di droga, ma un amico dell’ex pugile – che il giorno in cui si è consumato l’omicidio aveva accompagnato Ricci in Via della Magliana e che con una scusa era stato allontanato da De Negri – indirizzò gli inquirenti verso il Canaro.
Il 2 marzo, De Negri confessa, tramite un memoriale consegnato agli inquirenti, la sua verità:
«Con il mio demoniaco gesto ho infangato il rispettato cognome, che con tanti sacrifici il mio povero padre ha sempre onorato. Sono perfettamente cosciente del mio macabro delitto e sono qui per assumermi tutte le responsabilità che fin da ora ne conseguono; ma nonostante la mia accurata confessione voi non potrete mai arrivare a capire il mio stato d’animo, e le emozioni che mi hanno portato a questo disperato e diabolico gesto».
«So stato io… gli ho sciacquato il cervello con lo shampoo dei cani, a quell’infame.
Gli ho amputato le dita, poi gli ho tagliato le orecchie, il naso, i genitali. Gli ho detto: adesso non sei più neanche un uomo. Lui è svenuto, io ho bruciato le ferite con la benzina per fermare il sangue e l’ho fatto rinvenire. Parlava troppo, continuava a insultarmi così gli ho tagliato la lingua. Ma non voleva saperne di morire, quell’infame. Alla fine gli ho sfondato la testa e lavato il cervello».
Le perizie e la sentenza
21 ottobre 1988. I periti accertano un delirio paranoico in personalità paranoide affetto da intossicazione cronica da cocaina.
Secondo quanto affermato dal tossicologo Carmelo Funari: «la cocaina può scatenare degli istinti di violenza sia contro se stessi, nelle reazioni di tipo suicidario sia delle reazioni di tipo omicidiario. Quindi non è infrequente imbattersi in casi di cronaca in cui prima dell’evento il soggetto abbia utilizzato cocaina».
La perizia medico legale effettuata dall’anatomopatologo Giovanni Arcudi mette alla luce nuove zone d’ombra: «ciò che De Negri aveva scritto nel memoriale sia sulla natura sia sulla modalità di attuazione delle lesioni non ha trovato alcun riscontro obiettivo in quello che sul tavolo anatomico ho potuto osservare e documentare.
Tutte le amputazioni avevano un carattere post mortali, ovvero eseguite dopo la morte del soggetto. Inoltre De Negri sostiene di avere cauterizzato le ferite dell’amputazione con la benzina e questo non ha trovato riscontro obiettivo perché le ferite non risultavano cauterizzate ne presentavano tracce di idrocarburi».
Per questo c’è chi ipotizza un coinvolgimento di altre persone. Anche perché Ricci ultimamente aveva ricevuto delle minacce di morte. Forse proprio da affiliati alla mafia. Inoltre, c’è il sospetto, che De Negri abbia amplificato il suo racconto davanti agli inquirenti.
In primo grado Pietro De Negri riconosciuto semiinfermo di mente e non socialmente pericoloso viene condannato a 20 anni, di cui 15 per l’omicidio e 5 per detenzione e spaccio di droga, ma dopo neanche un anno di reclusione torna in libertà. In Appello la pena viene aumentata di sette anni perché nel memoriale affermava di non essersi pentito.
Il 2 aprile 1993 arriva la condanna definitiva in Cassazione. Pietro De Negri viene condannato a 24 anni di reclusione.
26 ottobre 2005. Il Canaro della Magliana è tornato in libertà e affidato ai servizi sociali dopo aver scontato 16 anni di reclusione.
di Marco Arnesano
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