Genesi di un orrore
È il 18 Febbraio 1988, in via della Magliana 253 (quartiere della periferia nord-occidentale di Roma sorto alla fine degli anni Sessanta) viene consumato un terribile e brutale omicidio.
La vittima è Giancarlo Ricci 27 anni, ex pugile, tossicodipendente, legato alla mafia siciliana. Autore reo confesso è Pietro De Negri di origine sarda, sposato con una figlia di 8 anni a cui è molto legato. Grande amante degli animali, gestisce una toeletta per cani – per questo soprannominato “Canaro” – lavoro che svolge con passione e cura. Unico vizio la cocaina.
I fatti
18 febbraio 1988. Il Canaro dopo tante vessazioni subite da Ricci decide di punirlo una volta per tutte. Lo attira al negozio con la scusa che deve incontrarsi con un trafficante per l’acquisto di una partita (un etto) di cocaina per poi rapinarlo.
Così De Negri raccomanda a Ricci di nascondersi nella gabbia dove asciuga i cani – unico posto dove il corriere non guarderebbe mai – e saltare fuori all’improvviso, simulando così una rapina, picchiando sia il Canaro che l’emissario e darsi alla fuga. Il pugile ci pensa un attimo e accetta, si fida ciecamente non temendo quell’uomo che ha già umiliato tante volte.
Ore 14.30. Scatta la trappola. Il Canaro fa entrare Ricci nella gabbia e la chiude. Ormai è in trappola ignaro di quello che da li a poco sarebbe successo. Per farsi coraggio e portare a termine la sua vendetta consuma una quantità smodata di cocaina che aveva acquistato in precedenza.
Ricci comprendendo di essere caduto in un tranello, inizia a dimenarsi ed a urlare, questo fa salire la rabbia del Canaro che decide di alzare il volume dello stereo per coprire le urla e i rumori violenti con cui si apprestava a consumare l’orribile omicidio.
Giancarlo Ricci viene seviziato per sette ore. Una vendetta senza precedenti. Inizia le torture cospargendolo di benzina e gli da fuoco. Il pugile per il dolore si dimena e con forza, cerca di uscire dalla gabbia. Decide di legargli una mano al tavolo con una corda e lo tramortisce con una serie di bastonate. Una furia inarrestabile a tal punto da far svenire Ricci dal dolore.
Approfittando dello stato confusionale, De Negri, lo tira fuori dalla gabbia legandolo alle catene con le quali tiene fermi i suoi adorati cani. Dopo che la vittima si è ripresa comincia a lavorare con le tronchesi, amputa pollici e indici, poi di nuovo benzina per cauterizzare le ferite.
Il dolore è percepibile e orrendo. Il carnefice si fa un’altra tiratina di coca. Dopodiché torna “dall’amico” e lo schernisce: «Ma come ti hanno conciato male! E chi è stato questo figlio di buona donna?». Nonostante fosse allo stremo, tra dolore e rabbia Ricci non frena gli insulti contro De Negri.
Ore 16.00. Piero De Negri si “prende una pausa” deve andare a scuola a prendere la figlia e accompagnarla a casa dalla madre. Ritorna al negozio e continua ancora per ore l’orribile tortura. Riprende le sevizie con le tronchesi, taglia tutto ciò che è rimasto da tagliare. Infine soffoca la vittima inserendole a forza in bocca con una tenaglia le parti amputate.
Dopo, infierisce sul cadavere rompendogli i denti e inserendo le dita recise negli occhi e nell’ano. Mette tutto in un sacco e lo brucia in una discarica, lasciando però indenni i polpastrelli per il riconoscimento.
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