Paura e disgusto nel Mediterraneo
Sono tante le storie di immigrazione, spesso clandestine, che inondano telegiornali e quotidiani del nostro Paese; alcune sembrano essere raccontate per creare una sorta di conflitto preventivo tra la popolazione italiana e questi viaggiatori del mare, altre – ben poche – cercano di spiegare i motivi di tali migrazioni: la paura di giovani che scappano dalla propria casa con un’idea di speranza che potrebbe naufragare da un momento all’altro.
Il tutto condito dal disgusto verso un mondo incapace di andare oltre il muro della diffidenza. “Restiamo umani” era il motto dell’attivista Vittorio Arrigoni. Anche se qui, dalle parti del Mediterraneo, in questo crogiuolo di culture diverse e all’apparenza incompatibili, l’umanità sembra diventata ormai un optional.
Dopo le primavere arabe che hanno colpito l’Africa settentrionale, il dopo-rivoluzione non ha arrestato il flusso migratorio verso i Paese europei, con le partenze dei barconi in direzione Grecia, Malta o Lampedusa, mai del tutto interrotte. “Viaggi della speranza” come li definisce lo scrittore senegalese Bay Mademba, vere e proprie odissee in cui nessuno ha la certezza di arrivare sano e salvo a terra.
Morire a primavera
In una di queste imbarcazioni, lo scorso marzo, perdeva la vita inghiottita dalle onde subdole del Mediterraneo Saamiya Yusuf Omar, non una ragazza qualsiasi. L’appena ventunenne somala, infatti, era una professionista di atletica leggera che nel 2008, non ancora maggiorenne, era riuscita a partecipare alle Olimpiadi di Pechino, nella gara dei 200 metri.
Proprio ai Giochi Olimpici, quest’estate a Londra, l’ex atleta somalo Abdi Bile (oro nei Mondiali di atletica romani del 1987, oggi un eroe in patria) ha voluto riportare l’attenzione sulla sua giovane connazionale, vittima di una tragedia che riguarda l’Italia molto da vicino ma che sembra interessare poco all’informazione nazionale.
La storia di Saamiya è stata ripresa con particolare interesse solo da Igiaba Scego, giornalista di spicco di Pubblico, la quale ha ricostruito la storia della ragazza. Grazie agli articoli della reporter italiana, ma di origine somala, l’Italia riuscirebbe a comprendere e assimilare tutta quell’umanità necessaria, quando si parla di immigrazione.
Saamiya parte dalla casa di Mogadiscio per il suo personalissimo tahrib, il viaggio di migrazione, attraversando in condizioni precarie la parte nord-occidentale del deserto del Sahara, dall’Etiopia al Sudan e arrivando direttamente in Libia.
Da qui parte il barcone che avrebbe dovuto portarla a Malta, dove la duecentometrista avrebbe richiesto asilo politico alla Finlandia per ricongiungersi con la sorella e allenarsi nella propria disciplina olimpica. “Il suo chiodo fisso era Londra 2012”, racconta proprio la sorella Hodan.
Ma Saamiya, come altri migranti partita alla ricerca di un sogno, non vedrà mai le Olimpiadi inglesi, né la sabbia bianca delle coste maltesi.
L’ultimo viaggio
Igiaba Scego cerca di raccontare l’ultimo viaggio dell’atleta, mettendo insieme le frammentarie notizie avute dalla sorella. Le telefonate tra le due e le testimonianze di alcuni testimoni oculari del suo tahrid descrivono un viaggio nel deserto lungo oltre un mese che culmina, per breve tempo, in un lager libico dal quale annuncia alla famiglia il proprio imminente viaggio verso quella terra promessa chiamata Europa.
Poi la partenza su un’imbarcazione (si dice) in buone condizioni. Da qui parte il mistero.
Secondo la sorella Hodan (intervistata nell’occasione del giornalista della Bbc Koronto) in pieno Mediterraneo sarebbe finito il carburante e a quel punto i migranti avrebbero chiesto aiuto a una barca avvistata nei paraggi.
Quello che non è chiaro (le testimonianze raccolte sono molto vaghe) è se la nave incontrata fosse italiana (come crede la sorella dell’atleta somala), se fosse un peschereccio o un mezzo della Marina e se in quel momento si trovassero in acque internazionali, libiche o già italiane.
Hodan sa solo che Saamiya non sapeva nuotare, che in sette hanno trovato la morte (in un tentativo di salvataggio) sei donne e un ragazzo, e che tra loro c’era proprio sua sorella, inghiottita dalle stesse acque che le avevano promesso un sogno.
Era il 17 marzo, Saamiya aveva compiuto ventuno anni solo due giorni prima. Grazie al contributo del dottor Giuseppe Saviano, intervistato su “Il Mattino” di Napoli, Igiaba Scego è riuscita a trovare i pezzi mancanti di un puzzle, che neanche la sorella di Saamiya poteva padroneggiare: il suo corpo è stato rinvenuto privo di vita e con i segni di una sconvolgente gravidanza di quattro mesi.
Facendo due calcoli (e pensando all’assoluta castità delle ragazze somale prima del matrimonio), si tratta di una maternità frutto di uno stupro nel carcere libico dove l’atleta era stata rinchiusa dopo la traversata del deserto libico, violenza purtroppo non rara in contesti simili.
Gli ultimi interrogativi della giornalista Igiaba Scego, sono quelli di chiunque abbia letto e riletto questa triste storia: quante Saamiya moriranno ancora in mare?
Quante Saamiya saranno ancora respinte in quei lager libici dove ad attenderle saranno solo stupri e botte? I nuovi accordi tra il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri e Tripoli, non si scostano molto da quelli firmati da Berlusconi e Gheddafi: i respingimenti sommari di barconi dalle acque italiane verso la Libia non sono un mistero e non sono stati cancellati.
Ora Saamiya non c’è più, ma la sua storia può diventare un punto di partenza per cambiare la nostra mentalità in materia di immigrazione e per renderci conto che non basta ascoltare un fatto per avere un’idea su di esso: occorre sempre capire fino in fondo che cosa sia realmente successo. Che la memoria di Saamiya e del suo tahrib dell’orrore sia con noi.
Hanno ammazzato Saamiya, Saamiya è viva.
di Luca Romeo