“Romanzo di una strage”, l’ultimo film di Marco Tullio Giordana ispiratosi liberamente a quanto avvenuto il 12 dicembre 1969, potrebbe appartenere alla categoria dei “mondi paralleli” ovvero quelle realtà create ad hoc per evitare di sbilanciarsi verso una teoria piuttosto che un’altra.
Sia ben chiaro che di vicende come quella di Piazza Fontana, laddove una bomba causò a Milano la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantotto, è sempre meglio che se ne parli piuttosto che lasciarle alla memoria dei pochi studiosi della materia. Tuttavia occuparsi di certi fatti richiede anche un impegno non indifferente sotto tutti i punti di vista. Fra i dati più importanti, oltre la qualità filmica delle immagini, non può non esservi l’attinenza storica di quanto si mostra al pubblico. Nel caso specifico il film delude le aspettative. Il problema è che parte già male ispirandosi al libro di Paolo Cucchiarelli, studioso che ripropone una tesi trita e ritrita (quella degli “opposti estremismi”) che danneggia l’interessante narrativo mostrato da Tullio Giordana.
Per chi non conosce la vicenda di Piazza Fontana, si tratta di uno dei più gravi attentati della storia repubblicana italiana. Alle ore 16.37 del 12 dicembre 1969 una bomba esplode nella sede della Banca dell’Agricoltura a Milano provocando una strage. Già qui i primi interrogativi: perché un attentato così grave e da parte di chi? La risposta di Cucchiarelli è puntare il dito contro gli anarchici, in particolare contro Pino Pinelli considerato persona informata sui fatti (è bene ricordare che Pinelli venne prima arrestato e poi rinvenuto morto dopo il volo da una finestra della Questura di Milano). La superficialità di Cucchiarelli la ritroviamo trasfigurata nel film: Giordana non attribuisce agli anarchici l’origine delle bombe ma supporta l’idea di una “doppia bomba”, la prima posta dall’anarchico Pietro Valpreda e la seconda dai fascisti su copertura dei servizi segreti.
Cosa significa? Significa che nel film aleggia una confusione che non rende giustizia alla precisione che invece i magistrati dell’epoca consegnarono alle indagini. Restituendo a Cesare quel che è di Cesare bisognerebbe dire invece che sulla strage di Piazza Fontana una verità c’è: si chiama eversione nera e ha un’origine ben precisa che gli storici collocano nella logica di quella “strategia della tensione” alla base di tanti fatti oscuri della nostra storia. Nessuna “doppia bomba” con matrici differenti e niente anarchici. Addirittura sarebbe da ridimensionare l’apporto, nella vicenda, di quel tanto misterioso Ufficio Affari Riservati diretto da Federico Umberto D’Amato. Dalle carte della Commissione Stragi si evince che il suddetto era forse informato delle dinamiche che avrebbero portato alla preparazione di quella che non doveva essere in origine una strage. La realtà a volte è più semplice di tante finzioni costruite nel tempo: la bomba doveva esplodere in un orario differente ma per un errore del timer (o della tipologia dell’esplosivo) la deflagrazione avviene nel momento in cui la Banca dell’Agricoltura a Milano pullula ancora di gente, uccidendole sul colpo.
Ma questa verità è poco conveniente dal punto di vista cinematografico: meglio gli anarchici e meglio i servizi segreti in tutte le salse, così nessuno si offende e il fascino si traduce in incassi consistenti. Non regge neanche la versione di Tullio Giordana, il quale giustifica la superficialità di alcune scene attraverso la formula della “libera ispirazione”. Bisognerebbe operare delle scelte: fiction o verità dei fatti. Di vie di mezzo questo Paese ne ha viste già tante, troppe, e francamente non servono. Probabilmente però se oggi la verità storica non è seguita da tutti, specie a certi livelli, la ragione è da ricercasi non nelle idee dei registi bensì nella pigrizia dell’italiano medio, il quale preferisce spendere denaro per recarsi in un cinema affidandosi alle ricostruzioni “libere” di chi offre un generico “mistero della fede” piuttosto che prendersi la briga di cercare libri documentati di chi ha vissuto quegli anni e di chi ha lavorato alla luce dei fatti e non delle supposizioni stile fiction da prima serata. Se in un Paese la verità resta per tantissimi anni sepolta, in fondo non è solo colpa di chi la insabbia ma anche del popolo che non la cerca.
di Pasquale Ragone
(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 9.4.2012)