Sono passati quarantuno anni dallo scoppio che il 12 dicembre 1969 distrusse la Banca dell’Agricoltura a Milano e con essa la vita di diciassette persone, trascinando con sé anche ottantotto feriti. Da allora, ancora il Paese è in attesa di giustizia o quantomeno di conoscere i nomi di chi ha materialmente posizionato la bomba. Infatti, come tutte le stragi avvenute in Italia, la mano assassina non coincide mai con quella dei mandanti, inevitabilmente appartenenti a due livelli separati e spesso opposti in apparenza.
Alle 16:37, Milano scopre assieme a Roma che è ufficialmente iniziata quella che verrà definita da storici e politici come la “strategia della tensione”: altri tre ordigni sono posizionati infatti con l’obiettivo di colpire la Banca Commerciale di Milano, la Banca del Lavoro a Roma e l’Altare della Patria, ma nessuna di queste tre causano altre morti. Le indagini sulla bomba alla Banca dell’Agricoltura, passata alle cronache come la “Strage di Piazza Fontana”, sono rapide e apparentemente efficaci.
Il giorno stesso dell’attentato, l’anarchico Giuseppe Pinelli viene arrestato con l’accusa di essere l’esecutore materiale; dopo soli tre giorni, Pinelli muore dopo un volo di quattro piani dalla Questura di Milano. Con lui si perdono molte delle possibilità di conoscere la verità sull’accaduto. Tuttavia, agli inquirenti sembra chiaro che la vicenda nasconda molto di più che non un attentato deciso e coordinato da ambienti anarchici. Così come sarebbe accaduto per decine di altre stragi italiane, la domanda è chi sia il regista delle stragi. Col tempo, riguardo la Strage di Piazza Fontana, sono sorte diverse piste e interpretazione dei fatti. La più forte e condivisa vuole la strage compiuta da anarchici di destra e ordinata da apparati deviati dei servizi segreti italiani.
La presenza nella vicenda dell’Agente Zeta, uomo del Sid (Servizio informazione e difesa) e quella di uomini morti in circostanze oscure come lo stesso Pinelli o come il commissario Calabresi, ucciso da un commando di estrema sinistra, sono i chiari indizi di una verità che tocca le corde politiche più profonde del Paese. Ma una delle piste più inquietanti è quella messa in piedi dai documenti ritrovati in uno dei covi delle Brigate Rosse, secondo cui Aldo Moro, durante i giorni della prigionia avrebbe spiegato le ragioni della strage e chi furono i mandanti. Le carte, oggi distrutte pare per un errore di considerazione circa la loro importanza, individuavano nell’estremismo di destra la mano assassina e addirittura in alcuni Stati stranieri i principali sostenitori dell’atto stragista.
Tuttavia, oggi di quella vicenda resta la cronaca di un’esplosione e la certezza che dopo quarantuno anni non sarà più possibile far si che la giustizia condanni qualcuno. E il ricordo è il comune denominatore che ha visto centinaia di partecipanti pochi giorni fa, a Milano, per commemorare le vittime della bomba. Fra essi, il sindaco di Milano (Letizia Moratti) e il Presidente della Provincia (Guido Podestà) sono stati contestati da un gruppo non precisato formato in gran parte da giovani.
Il dolore dell’assenza di una verità e l’ormai certezza dell’impunità hanno preso forma con fischi e urla contro chi, agli occhi della comunità milanese, rappresenta lo Stato e la possibilità di fare giustizia. Il sindaco Moratti ha così lasciato Piazza Fontana non appena conclusosi un documentario sulla strage; ma è ovvio che il risentimento non è nella persona Moratti quanto in quel che rappresenta quest’ultima, ruolo che trascina con sé l’assenza di quel desiderio e di quell’ardore che avrebbe dovuto spingere la giustizia alla ricerca della verità. La comunità, più di ogni altra istituzione, sente più forte il dolore della memoria e sa, senza illusioni, che l’inchiesta sulla morte di diciassette persone resterà per sempre negli archivi polverosi della storia, senza giustizia alcuna.
di Pasquale Ragone
(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 20.12.2010)