“Per lo Stato, trovare la verità significa dare speranza alle nuove generazioni e ottenere credibilità andando fino in fondo”. La frase non appartiene a un politico, a un giudice o a uno scrittore; essa venne proferita nel 2008 da uno dei parenti delle otto persone vittime della bomba esplosa a Piazza della Loggia, a Brescia, il 28 maggio 1974 durante una manifestazione antifascista.
E’ difficile, dopo più di trent’anni, parlare di quel che ormai è catalogato come un fatto storico, ed è difficile conoscere la verità, i dettagli, i nomi e i cognomi di chi pensò e compì la strage. In ogni Paese che si definisce “democratico”, il compito di definire la verità, spazzando così gli incubi del passato, spetta alla magistratura; in un Paese democratico, un nome, una struttura, un volto viene irrimediabilmente alla luce, per forza. Eppure, la saggezza impone che nella vita nulla è mai scontato, nemmeno la giustizia circa gli anni che hanno insanguinato l’Italia, Brescia in particolare.
L’episodio della bomba del 1974, infatti, giunge a conclusione di un periodo caldo in cui altri attentati e altre bombe avevano già scosso la città a causa dell’odio anticomunista. Solo pochi mesi prima, diversi ordigni erano esplosi a Brescia nelle sedi dei sindacati e del partito socialista. Addirittura, pochi giorni prima dell’attentato in Piazza della Loggia, un ragazzo muore esplodendo assieme a un pacco bomba che egli stesso sta trasportando. Il ragazzo, Silvio Ferrari, si scopre appartenere agli ambienti neofascisti, gli stessi a cui gli inquirenti attribuiscono la matrice degli ordigni esplosi a Brescia fra febbraio e maggio del ’74.
Nel resto d’Italia, la situazione non è migliore. Solo cinque anni prima si era registrato l’attentato sanguinoso alla Banca dell’Agricoltura e anche in quel caso si era trattato di strage; nel 1970 vi era stata la strage di Gioia Tauro; nel 1972 quella di Peteano; nel 1973 la bomba alla Questura di Milano. Inutile dire che quelli elencati sono misteri in cui la giustizia ha indagato ma il più delle volte è stata costretta a fermarsi, a dover interrompere quel processo teso ad accertare la verità. Perché? E’ la domanda che il Paese ancora fa a se stessa ma senza una risposta ufficiale. Dopo più di trent’anni dai fatti elencati, esiste tuttavia una verità che si è depositata sul fondo dell’animo di ogni cittadino, ed è quella che vuole le stragi frutto dell’eversione nera che sin dalle origini della Repubblica italiana ha insanguinato il Paese partendo da Portella della Ginestra, nel 1947, fino a giungere alla strage della stazione di Bologna, nel 1981. Ma c’è qualcosa di più.
Ogni magistrato che si è occupato nelle indagini sulle stragi italiane, si è sempre imbattuto, sistematicamente, in opere di depistaggio. A Brescia, quest’ultimo concetto si mostra in modo ancor più esplicito. Sono le ore dieci del 28 maggio 1974 e la bomba esplode uccidendo otto persone; non passano nemmeno due ore e i pompieri sono sul luogo della strage per ripulire la piazza da oggetti e sangue. Apparentemente, l’episodio meriterebbe il plauso per la prontezza delle strutture preposte al mantenimento dell’ordine cittadino. Chi invece ha una certa esperienza, nota immediatamente che la pulizia dei vigili avviene prima dell’arrivo dei magistrati e dunque prima che la polizia possa svolgere tutti i rilievi del caso.
Dopo decenni, nessun funzionario ha mai perso il posto di lavoro per aver ordinato ai vigili di intervenire; nessun nome è mai stato consegnato alla giustizia in quanto responsabile di un chiaro atto di depistaggio. Un nome utile, invece, viene a galla nel corso delle primissime indagini. E’ quello di Ermanno Buzzi, un uomo dell’estrema destra bresciana e che, si disse, aveva rapporti con uomini dei Sid, ovvero il servizio segreto italiano di quegli anni, e che secondo diversi testimoni aveva ordito l’attentato. Il Sid, per intenderci, è quell’apparato segreto dello Stato presente in ogni indagine stragista italiana; una di quelle strutture che hanno reso la verità un oggetto del desiderio ma mai un obiettivo raggiungibile. Accade così che, in attesa del processo d’appello, Ermanno Buzzi viene ucciso in carcere.
La sentenza del 1979, la prima delle tre sulla strage di Brescia, non ha colpevoli. Gli unici imputati, che secondo l’accusa avevano organizzato le modalità dell’attentato fino a concretizzarlo, risultano innocenti così come Buzzi. Passano sei anni e i magistrati ricominciano le indagini sulla base delle testimonianze di alcuni pentiti della destra eversiva. In quella sede, si dichiara che l’attentato è nato negli ambienti neofascisti di Milano, coinvolgendo personaggi di spicco dell’eversione nera milanese. Ma nel maggio 1987, due giorni prima della commemorazione dei tredici anni dalla strage, la sentenza assolve tutti per insufficienza di prove: nessun colpevole.
Il terzo filone d’indagine, sorto nel 2005, si indirizza invece verso eventuali responsabilità dei dirigenti dei vari movimenti neofascisti, fra cui Ordine Nuovo (movimento neofascista sorto nel 1956). Stavolta, i magistrati si concentrano a fondo sui rapporti esistenti fra uomini dell’eversione nera e membri vicini allo Stato operanti negli apparati militari a cui fa capo quest’ultimo.
I nomi degli imputati sono Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi.
Si tratta di personaggi il cui curriculum non può essere ignorato: Tramonte, esperto di esplosivi, appartenente agli ambienti dei servizi segreti, presente in Piazza della Loggia poco prima dello scoppio della bomba (come attesta una foto) e accusato di aver posizionato l’ordigno in un cestino sotto un porticato della piazza; Pino Rauti, dirigente di Ordine Nuovo fino al 1973 e, secondo una nota dei servizi, parte di Ordine Nero (movimento sorto sulle ceneri del primo) e presente alla riunione in cui si sarebbe deciso l’attentato; Francesco Delfino, comandante dei carabinieri protagonista delle prime indagini sulla strage e uomo dei servizi segreti italiani, accusato di depistaggio; Delfo Zorzi, dirigente di Ordine Nuovo, imputato per la strage ma che ora vive in Giappone senza alcuna possibilità di estradizione in Italia; Carlo Maria Maggi, presente con Tramonte per la pianificazione dell’attentato; e Giovanni Maifredi, istruttore di gruppi paramilitari e autista dell’allora Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani.
Contro di loro, i giudici raccolgono note del Sid, interrogatori di uomini dei servizi segreti che si dicono informati sui fatti, foto come quella che accusa Tramonte, testimonianze di chi aveva visto quel 28 maggio del 1974 uomini di Ordine Nuovo (od Ordine Nero) presente nella Piazza, testimonianze di pentiti dell’estrema destra. Ma non bastano. Secondo i giudici, le prove non sono sufficienti e il 16 novembre 2010 gli imputati sono tutti assolti: per la terza volta, nessun assassino, nessun mandante e quindi nessuna motivazione. La storia delle indagini su Piazza della Loggia è la stessa che è stata possibile leggere per tutte le stragi avvenute in Italia, nessuna esclusa. Le riflessioni sulla sentenza si sprecherebbero.
L’amarezza di fondo per una verità mancata è forse tutta nelle parole di uno dei familiari delle vittime, la stessa citata all’inizio di questo excursus, nel paradosso che vuole uno Stato colpevole di se stesso e in cui il concetto di giustizia e di dignità si scontra con il dovere della memoria laddove “per lo Stato, trovare la verità significa dare speranza alle nuove generazioni e ottenere credibilità andando fino in fondo”.
di Pasquale Ragone
(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 29.11.2010)