(foto fonte web)
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La sentenza del 26 gennaio scorso che ha condannato Raniero Busco in primo grado a ventiquattro anni ha tutti i caratteri dell’eccezionalità. Lo è sia perché si tratta della prima sentenza sulla morte di Simonetta Cesaroni dopo ventuno anni dal delitto, sia perché i criteri di giudizio sono stati quantomeno singolari. Raniero Busco è il grande accusato del processo sulla morte della Cesaroni, uccisa il 7 agosto del 1990 nello stabile di Via Poma 2, sulla base del concetto di “incompatibilità” che rende allo stesso tempo sia contorta che chiarificatrice una delle vicende più misteriose degli ultimi vent’anni.

Per avere un’idea di cosa sia stato il giallo di Via Poma 2 basterebbe sfogliare qualsiasi quotidiano dell’epoca e accorgersi dell’esistenza di personaggi sempre rimasti in un’ombra su cui mai è stata fatta luce.

Il corpo di Simonetta viene infatti ritrovato il 7 agosto 1990 dopo che vani erano stati i tentativi, da parte dei familiari, di rintracciarla. La scena che si presentava ai primi intervenuti nell’ufficio dell’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù (A.I.A.G.) è raccapricciante: Simonetta riportava ventinove coltellate, di cui due agli occhi, al seno e al pube; il corpo era seminudo e alla fine si sarebbero contati ben tre litri di sangue fuoriusciti dalla vittima. A Via Poma 2 un omicidio così non si era mai visto, eppure anche lì esistevano dei precedenti, come quello di Renata Moscatelli cognata di un marchese petroliere, delitto senza autore.

Le indagini sulla morte della Cesaroni si erano mostrate sin da subito complicate e nel tempo le ombre si sarebbero allungate fino a coprire personaggi di cui mai è stato chiarito fino in fondo il ruolo svolto nella vicenda. E’ il caso di Pietro Vanacore, pare morto suicida appena prima dell’inizio del processo che ha portato alla condanna di Busco.

Vanacore era il portiere dello stabile in cui venne ritrovata la vittima e la sua presunta presenza al momento del delitto o la possibilità che egli conoscesse molti dettagli sulla vicenda sono sempre rimaste voci. Eppure, come in ogni giallo che si rispetti, la scena del delitto è il primo punto da cui partire.

Simonetta Cesaroni presentava il corpo seminudo indossando solo i calzini, le mutandine e il reggiseno, entrambi abbassati. Chi ha ucciso quella ragazza? In un primo momento le indagini si erano bloccate a causa dell’assenza di elementi utili; oggi, le moderne tecniche di investigazione hanno permesso di riaprire le indagini e di adempiere a tutti gli esami necessari.

E’ così che si è giunti dopo ventuno anni a decretare una presunta verità sul giallo di Via Poma. A condannare Busco sono stati i risultati ottenuti dall’esame della saliva presente sul corpetto e sul reggiseno di Simonetta Cesaroni, elemento posto in relazione soprattutto col segno del morso presente sul seno della vittima. Eppure, la sentenza non chiarisce i dubbi che ancora persistono; essa si basa infatti su elementi discutibili.

Per capire a chi appartenesse il segno lasciato sul seno di Simonetta, la polizia scientifica si è avvalsa del principio della “compatibilità” intesa come somiglianza molto forte fra il segno del morso ritrovato e l’arcata dentale di Raniero Busco. Il risultato, secondo giudici, innalza a prova quel che invece dovrebbe essere un utile indizio in quanto la compatibilità può circoscrivere le indagini a pochi sospettati ma sicuramente non ne chiarisce il nome e il cognome.

E lo stesso è avvenuto per la saliva sul reggiseno. Quest’ultima appartiene a Busco senza alcun dubbio ma nulla toglie che possa esservi rimasta in seguito alle tante volte che l’uomo ha avuto rapporti con la vittima. E’ infatti necessario ricordare che Busco era il fidanzato della Cesaroni ed è altrettanto necessario ricordare che tracce di saliva possono restare su un indumento anche dopo diversi lavaggi. Analoghe analisi sono state compiute inoltre per la verifica del Dna.

Sul luogo del delitto, infatti, è stato ritrovato del sangue misto a quello della Cesaroni. La tipologia di quest’ultimo è in parte simile alle tracce ritrovate nel lavatoio dello stabile di Via Poma posto sul terrazzo laddove l’assassino si sarebbe lavato le mani dopo l’omicidio. Anche in questo caso si è parlato di “compatibilità” del Dna, palesando un errore clamoroso da parte dei giudici perché per principio il Dna non può essere compatibile: esso è oppure non è della persona a cui viene attribuito.

Anche in questo caso la compatibilità risulta essere un concetto troppo labile per poter condannare un uomo a ventiquattro anni per un omicidio. A dover far riflettere giunge inoltre il dato che si rileva analizzando la scena del crimine. Prima di essere ferocemente assassinata, con ben ventinove coltellate, Simonetta si era spogliata.

Può sembrare un dettaglio inutile ma in realtà dice molto. E’ risaputo, attraverso le testimonianze raccolte dalla Procura all’epoca dei fatti, che la ragazza desiderava un rapporto molto più saldo con Raniero Busco mentre quest’ultimo pare fosse più reticente. In base al dato appena espresso, che senso avrebbe avuto per l’uomo insistere il 7 agosto affinché avvenisse un rapporto sessuale?

E perché tanta violenza nei confronti della vittima con modalità tipiche dell’efferatezza? Proprio in merito alla violenza e alla posizione dei colpi inferti (agli occhi, al seno e al pube) il primo pensiero vola invece verso gli omicidi efferati del Mostro di Firenze di cui l’ultimo compiuto appena cinque anni prima, nel 1985.

Nonostante le tante considerazioni, i giudici hanno scelto di condannare Busco sulla base di elementi da essi definiti “compatibili” ma che in realtà lasciano una scia enorme di dubbi. A breve si ricorrerà in appello per ribaltare la sentenza ma il timore è che in assenza di elementi più forti, altrimenti dette prove, si pongano le basi per considerare quello di Via Poma l’ennesimo giallo italiano irrisolto.

di Pasquale Ragone

(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 6.9.2010)