Chi temeva realmente Paolo Borsellino nell’ultimo periodo di vita? Sembra non avere fine la spirale investigativa che riguarda le stragi di Capaci e Via d’Amelio. Solo qualche settimana fa ci eravamo soffermati sulle modalità dell’omicidio del giudice Paolo Borsellino, avvenuto il 19 luglio 1992.
E soprattutto ci eravamo soffermati sulla revisione del processo in merito, così come auspicato dalla Procura di Palermo. Se quest’ultimo atto tende a spiegare la preparazione dell’attentato dinamitardo di Via d’Amelio, attribuendo alla mafia il ruolo di manovalanza, nuove indiscrezioni spostano l’attenzione sui possibili mandanti della strage.
A “scongelare” parte delle informazioni fino a oggi rimaste nell’ombra è Agnese Borsellino, moglie del giudice. Nei giorni precedenti la morte, quest’ultimo confida impressioni e timori per la propria vita.
Sia ben chiaro che Paolo Borsellino non è solito lasciarsi andare a indiscrezioni relative al proprio lavoro, sia per la riservatezza che ne caratterizza la persona, sia per la delicatezza delle indagini che svolge. Nonostante tutto, qualcosa trapela. Sono diversi gli indizi che a distanza di quasi vent’anni tendono a trovare posto nella mente della vedova Borsellino.
Nell’estate del 1992 (giugno, per la precisione) toni cupi e allarmati si susseguono nelle telefonate del giudice. In una di esse si parla della scoperta di una vera e propria trattativa fra la mafia e “parti infedeli dello Stato”. Ma è solo la punta di un iceberg.
Le rivelazioni più consistenti si hanno nel corso di una seconda telefonata dove il giudice addirittura aggiunge nomi e cognomi ai suoi timori citando l’allora comandante dei Ros, il generale Subranni, in qualità di affiliato a Cosa Nostra. A suggerirgli tale conclusione è un episodio di cui lo stesso giudice riferisce di essere stato testimone.
Al comandante dei Ros sarebbe necessario aggiungere non meglio precisati “colleghi” intenti a muoversi abilmente in quella trattativa fra Stato e mafia che pare essere sempre più il motivo principale dell’assassinio di Paolo Borsellino.
Le telefonate restituiscono da giugno in poi un uomo disgustato dalla gestione da parte di alcuni uomini dello Stato, tanto da rivelare alla moglie un vero e proprio dolore fisico nell’apprendere dei nomi coinvolti nella trattativa; così come restituiscono un uomo preoccupato così tanto da dare più volte, anche in momenti di vita privata, la sensazione di essere ormai un bersaglio fin troppo facile da colpire addirittura rifiutando la scorta.
Perché? La ragione sta tutta nelle parole del giudice laddove, secondo lui, non sarebbe stata la mafia a ucciderlo bensì i suoi colleghi “e altri a permettere che ciò possa accadere”. Sul nome di quest’ultimi oggi la Procura di Palermo si interroga senza ancora approdare a elementi concreti.
Forse la risposta, in parte, è in quel Castello Utveggio (sito sul Monte Pellegrino visibile dalla sua abitazione) dal quale Borsellino tendeva spesso di “nascondersi” serrando le tende e celando il più possibile il proprio quotidiano da occhi che, con tutta evidenza, considerava quantomeno “indiscreti” e in grado di osservarlo in ogni istante.
Alla luce di quanto affermato dalla vedova Borsellino e dalle ultime indagini sulla dinamica dell’attentato, sembra affiorare un quadro relativamente chiaro.
Dalla testimonianza del pentito Spatuzza sappiamo che a premere il pulsante nell’attentato a Via d’Amelio sarebbe stato il boss Giuseppe Graviano e dunque la ricostruzione della Procura di Palermo va nella direzione di indicare la manovalanza mafiosa come l’unica utilizzata per compiere la strage.
A ordinare la morte potrebbe essere stata la stessa mafia, certo, ma è tutt’altro che trascurabile il “silenzio-assenso” da parte di tutte quelle forze dello Stato che sapevano ma che hanno preferito non muovere un dito per salvare il giudice. Forse i colleghi di Borsellino, forse qualche generale, forse qualche politico eccellente.
Ma più di tutto, il quadro che sta per completarsi sembra poter essere ben descritto da una triste e cinica massima: la mafia uccide e lo Stato tace. E’ così che alla fine tutti sono responsabili ma nessuno è mai davvero il colpevole.
di Pasquale Ragone
(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 28.11.2011)