Esistono storie che con il passare del tempo non cancellano la propria forza ed esistono storie nelle quali la forza stessa consiste nella presenza ossessiva di dubbi e incertezze.
La morte di Aldo Moro è un evento che ha letteralmente traumatizzato la vita politica e sociale dell’Italia. Il 16 marzo 1978 nessuno credeva che alla vigilia di un nuovo governo Andreotti, uno degli uomini più in vista nel panorama politico nazionale avrebbe vissuto da lì ad altri cinquantaquattro giorni l’ultimo periodo della sua vita. Aldo Moro muore infatti il 9 maggio dello stesso anno, ritrovato a Via Caetani nel portabagagli di un’auto.
Nel corso di quei cinquantacinque giorni l’intera Democrazia Cristiana decide di non cedere alle richieste delle Brigate Rosse e sceglie quindi, per preservare la “moralità” dello Stato, la cosiddetta linea della fermezza: va bene liberare Moro ma solo trovando il covo e quindi attraverso un blitz. Ma la verità che si cela dietro questa affermazione è tale da essere cruda e orrenda agli occhi di chi è chiamato a leggerla.
Uno dei giudici istruttori che all’epoca si sono occupati del caso, Ferdinando Imposimato, rivela oggi informazioni di una gravità assoluta: Moro era stato trovato dalla Polizia ma pare che su ordine del Ministero dell’Interno, di cui era responsabile Francesco Cossiga, non si era dato seguito all’attuazione del blitz per liberarlo. Si era trattata di una “disattenzione” nei confronti dell’informazione giunta dalla Polizia? Per ora non è possibile dare alcuna risposta in merito ma solo aggiungere ulteriori dettagli a una morte che inizia a svelare pian piano molti retroscena.
Passano infatti solo tre anni dall’uccisione di Moro e l’Italia assiste ad un altro rapimento eccellente da parte delle Brigate Rosse: quello di Ciro Cirillo nel 1981, all’epoca principale referente dei fondi destinati all’Irpinia per la ricostruzione in seguito al terremoto del 1980.
La prigionia di Cirillo, democristiano così come Moro, avviene per ottantanove giorni e per liberarlo sono chiamati in causa esponenti della camorra, come Raffaele Cutolo, dei servizi segreti, come Francesco Pazienza, e i principali esponenti della Dc in Campania come Antonio Gava.
A differenza della vicenda Moro, la Dc inizia a trattare con le Br; e a differenza del rapimento di Moro non si risparmiano per Cirillo le energie, compresa l’azione di ricorrere ad esponenti della malavita organizzata. E non è da considerare di minore importanza la notizia già diffusa nel 1978 secondo la quale il Vaticano aveva intavolato delle trattative per la liberazione del leader democristiano ma che, proprio a un passo (e forse in vista) dalla possibile liberazione, quest’ultimo sarebbe stato ucciso.
La domanda è d’obbligo: perché questa disparità di trattamento? Perché per Moro si scelse sia di non trattare sia di “trascurare” informazioni relative al luogo (o ai luoghi) della sua prigionia e invece per Cirillo si fece di tutto sia per trattare sia per mobilitare quante più forze disponibili sul territorio? Troppe domande che coprono troppi dubbi. La sensazione è che la linea della fermezza nel 1978 sia solo un modo per evitare un cambiamento politico.
E si badi bene che potrebbe essere un errore considerare i fautori di questa “brusca frenata” alla storia coloro che ricoprono cariche di governo in quel momento. A distanza di tanti anni e con tante informazioni fra le mani è forse più corretto considerare Andreotti (Presidente del Consiglio), Cossiga (Ministro dell’Interno) ed altri, una sorta di attori-spettatori di una tragedia che doveva avvenire perché decisa ben oltre gli apparati governativi. La verità si trova fuori dai contesti nazionali e ha a che fare con quanto già accadeva nei primi anni della Repubblica italiana laddove “interferenze” di vario tipo accompagnavano le scelte politiche.
E’ difficile quindi non concludere così come l’ex giudice Imposimato ha pensato di intitolare uno dei suoi ultimi libri riguardo il caso Moro; difficile non lasciarsi andare all’espressione forse banale ma carica di significato che più di tutte sintetizza la vicenda: Doveva morire!
di Pasquale Ragone
(Articolo tratto dal settimanale “International Post”, 30.5.2011)