Buongiorno, notte (Marco Bellocchio, 2003)
genere: Politico
Il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro fu rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse, che lo uccisero il 9 maggio successivo. Qui si racconta ciò che sarebbe potuto accadere.
L’unico vero capolavoro del cinema italiano in questo inizio di secolo è opera di un vecchio maestro che, a sessant’anni suonati, ha ritrovato il talento di far coabitare le sue storiche inquietudini politiche col piacere di una narrazione piana e limpida, dopo il lungo e nebuloso periodo di collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli. A scanso di equivoci, “Buongiorno, notte” (verso di Emily Dickinson che è anche il titolo di una sceneggiatura ritrovata nella borsa di Moro) non è e non vuol essere cronaca fedele delle cinquantaquattro notti trascorse da Aldo Moro nella prigione dell’interno 11 di via Gradoli 96 a Roma: è piuttosto una visione alternativa della Storia ufficiale sotto forma di psicodramma domestico tipicamente bellocchiano, che nel finale cede il passo all’immaginazione come sistema di fuga dalla realtà. A parte l’inizio e la fine (rapimento e uccisione) succede poco e nulla, le notizie arrivano dai telegiornali e il resto è attesa, travaglio, congetture varie da cui emergono altrettante contraddizioni, dei duri e puri che festeggiano il Capodanno con Montesano alla tv. Nel rigore quasi brigatistico (passateci l’aggettivo) del cinema di Bellocchio, che pure non gli ha impedito un discreto successo di pubblico, è la miglior lezione di storia mai impartita dal recente cinema italiano, che ama (sa fare solo quello) guardare al passato con grande abbondanza di macchiette e luoghi comuni. Magnifico Roberto Herlitzka, ma i veri protagonisti sono gli occhi neri di Maya Sansa. Perfetta la scelta delle musiche, che partecipano e arricchiscono le sequenze migliori: “Fischia il vento” e i Pink Floyd per la lenta e dolorosa presa di consapevolezza di Chiara, e per il finale onirico il Momento Musicale n.3, uno degli Schubert più soavi.
The Village (M. Night Shyamalan, 2004)
genere: Thriller
In un villaggio situato in uno spazio imprecisato in un tempo imprecisato, una comunità deve fronteggiare oscure presenze nascoste nel bosco là vicino, che invadono le strade del borgo seminando il panico tra gli abitanti. Chi sono?
Sesto film di M. Night Shyamalan che – tanto per cominciare – dimostra ormai di essere in possesso di un proprio riconoscibile stile; e di questi tempi non è un dettaglio trascurabile. Thriller apparentemente paranormale – la specialità della casa: il principale asso nella manica di Shyamalan è proprio la sua abilità nel mascherare il colpo di scena, una qualità che non risiede soltanto nella sceneggiatura (invero stiracchiata, come diremo) ma nella creazione di un’atmosfera che, eterea e rarefatta, contribuisce ad alimentare la polvere e il mistero. Oltre a questo, tuttavia, non molto altro: il giochino di Shyamalan è noto e i suoi film si lasciano guardare una sola volta, in paziente attesa del coup de theatre; le motivazioni socio-filosofiche alla radice sono labili, e in questo caso sollevano anche più di un dubbio (che non diremo per non svelare l’intreccio); i personaggi hanno la fissità e lo spessore di un mucchio di figurine, anche se fa macchia la giovane e promettente Bryce Dallas Howard (subito assoldata da Von Trier, vista in Spiderman 3 e nel prossimo episodio di Twilight). Come un buon giovane regista che non ha ancora iniziato a crescere, Shyamalan si preoccupa per ora, da studente un po’ secchione, soltanto di ciò che riguarda il suo orticello: scrive in funzione del finale (notevole anche questo) e dirige di conseguenza, poco interessato alle questioni morali che sottendono ai film stessi; una sverniciata di spiritualità e vago misticismo è più che sufficiente per accontentare i criticoni (come in Signs: tanto bello prima, quanto pasticciato poi). “The Village” raggiunge la sufficienza perché è un film piano, corretto, senza errori di grammatica, che mantiene un certo interesse dall’inizio alla fine, ma non è una pellicola per cui strapparsi i capelli.
Syriana (Stephen Gaghan, 2005)
genere: Politico
Col tintinnar dei petrodollari come sottofondo, si intrecciano le vicende di una spia della CIA in crisi di coscienza, un aspirante kamikaze, un consulente finanziario in trasferta in Medio Oriente e due potenti società petrolifere americane.
Debutto alla regia per Stephen Gaghan, già apprezzatissimo sceneggiatore di “Traffic”, che qui dimostra ancora una volta le sue ottime qualità. Film robusto, ma registicamente senza guizzi, “Syriana” ovviamente si basa sul contenuto: c’è perfino troppa carne al fuoco, in un susseguirsi di microstorie alternate (strutturate proprio come in “Traffic”) che non favoriscono la comprensione dello spettatore medio. Molto complesso, non facile da seguire, è comunque l’ulteriore atto d’accusa di una Hollywood finalmente indipendente: non era capitato spesso di vedere rappresentata in questo modo la crudeltà americana. George Clooney, finalmente rivalutatosi come attore, continua così la sua eccellente carriera da produttore. Sufficienza piena.
Non è un paese per vecchi (Ethan e Joel Coen, 2007)
genere: Thriller
1980, Texas: uno psicopatico dà la caccia ad un reduce del Vietnam che ha trovato per caso una valigia piena di soldi. Sulle sue tracce provano a mettersi la polizia e anche un detective privato.
Il ritorno dei fratelli Joel e Ethan Coen a livelli d’eccellenza assoluta arriva con quello che è il loro miglior film, superiore anche alle perle storiche della loro collezione (per chi scrive “Crocevia della morte”, “Fargo” e “L’uomo che non c’era”). Partendo dal romanzo di Cordac McCarthy i Coen confezionano un film radicalmente spaccato in due: la prima parte, che copre oltre i tre quarti del film, è semplicemente una lezione di suspense, il più bel thriller contemporaneo, fondato sul predominio assoluto dell’azione sulla parola e di mirabile secchezza nella creazione genialmente scientifica della tensione, senza una singola nota di commento musicale; la seconda, in tutto venti minuti alla fine, è però la più preziosa, perché in essa sono custoditi il sugo della storia e il senso ultimo dell’intera esperienza artistica coeniana: anche nei suoi aspetti più avventurosi, pericolosi e romanzeschi, sia comici che tragici, la vita conserva un’indelebile banalità di fondo con la quale non si può che convivere senza chiederne una spiegazione; perché la spiegazione, ammesso che ci sia, è del tutto inutile. Javier Bardem si mette l’Oscar in tasca dando vita a un cattivo di cui si parlerà ancora tra quarant’anni come ultimo esponente di una galleria che va dal mostro di Dusseldorf a Hannibal Lecter; ma c’è di più. Magari è solo una coincidenza, ma erano decenni che il cinema americano non sfornava contemporaneamente due film come questo e “Il petroliere”, che hanno in comune una griffe registica finalmente riconoscibile e un’immensa statura morale che li rende autorevoli. E se uno dei due – come sembra – vincerà l’Oscar, la svolta avrà contagiato persino l’insospettabile Academy.
Michael Clayton (Tony Gilroy, 2007)
genere: Thriller
Un mite avvocato consulente di un importante studio legale si trova di fronte al caso più grande della sua carriera: dovrà fare i conti con una crisi di coscienza.
Il biglietto da visita mostrato da Tony Gilroy, newyorkese di Manhattan grande amico di Steven Soderbergh al suo esordio da regista, è quello di sceneggiatore di buon livello, che ha firmato il non eccelso copione de “L’avvocato del diavolo” e quelli della trilogia di Jason Bourne. Qui ha il buonsenso di affidarsi totalmente a George Clooney (che – è ufficiale – ha imparato a recitare), perno di una storia un po’ farraginosa e senza dubbio contorta per quelli per cui non è prassi confrontarsi quotidianamente con il materiale avvocatizio. “Michael Clayton” si muove nel solco dei romanzi di Grisham ma come legal-thriller si accende solo nel finale, quando arriva finalmente a compimento quel dilemma interiore del protagonista le cui tracce sono state precedentemente disseminate con troppa parsimonia. Nonostante si faccia un po’ fatica a capire di cosa si stia precisamente parlando, ha una buona tenuta di strada; ed è poi sempre un piacere rivedere Sydney Pollack. La lobby soderberghiana ha assolto perfettamente il suo compito facendo piovere su questo film non più che normale una cascata di nominations agli Oscar: addirittura sette, tra cui quelle scandalose alla regia e a Tilda Swinton come non protagonista.
Il caso Thomas Crawford (Gregory Hoblit, 2007)
genere: Thriller
L’ingegner Thomas Crawford spara alla sua giovane e bella moglie dopo aver scoperto la di lei relazione con un detective della polizia. Immediatamente si autoaccusa del delitto e rifiuta di farsi difendere nel processo. Sembra un caso facilissimo per il rampante avvocato dell’accusa Willy Beachum, in procinto di trasferirsi presso un potente studio legale. Sembra.
Sesto film del solido texano Gregory Hoblit, specializzato in thriller di varie foggie, tutti più o meno collocati su un apprezzabile livello medio (la sua perla è “Il tocco del male”, sulfureo poliziesco del 1998 con Denzel Washington, tra le pellicole più sottovalutate del decennio nella sua categoria). Qui la materia è squisitamente legale, e come tale viene sviluppata alla maniera dei caposaldi del genere tribunalizio: c’è un avvocato yuppie e stronzetto (copia carbone, solo un po’ più giovane, del personaggio di Richard Gere in “Schegge di paura”, sempre Hoblit, 1996; i calciofili apprezzeranno la notevole somiglianza tra il promettente Ryan Gosling e Daniele De Rossi), c’è un lestofante sardonico e brillantissimo ch’è un ruolo su misura per Anthony Hopkins (che infatti assolve il compito alla perfezione); c’è una sceneggiatura (di Daniel Pyne e Glenn Gers) elegante e misurata il giusto, con tocchi di black humour tutti riservati al nostro Hopkins versione Hannibal, finalizzata quasi esclusivamente al colpo di scena conclusivo, neanche così clamoroso e geniale come la réclame farebbe intendere. Ben fatto e ben confezionato, senza orpelli e deviazioni Kitsch che blocchino il flusso della narrazione. Il titolo americano, “Fracture”, fa riferimento alla professione del personaggio di Hopkins, che è ingegnere specializzato in meccanica della frattura e nella versione originale si chiama Ted e non Thomas; il titolo italiano (non) si spiega forse per un’affinità con “Il caso Thomas Crown”, 1968, di Norman Jewison, con Steve McQueen; fosse davvero così, sarebbe puro distillato d’idiozia.