Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme, 1991)
genere: Thriller
Una giovane recluta dell’FBI, per venire a capo di un serial killer che uccide e scuoia le sue vittime, cerca di collaborare con un brillante psichiatra tenuto in cella d’isolamento per aver ucciso e divorato alcuni suoi pazienti.
Dal romanzo di Thomas Harris; uno dei thriller più famosi di tutti i tempi, il migliore degli anni ’90 insieme a “Se7en” di David Fincher. Ha aperto la strada a molte innovazioni nel genere: l’apertura a un linguaggio più coraggioso e meno ipocritamente educato nella rappresentazione del Male (di impressionante forza visiva la scena di Buffalo Bill che si trucca), la definitiva affermazione di uno stile più asciutto e meno votato alla vuota ricerca dell’effettaccio alla Alan Parker (strada già tracciata da Mann nel 1986 con “Manhunter”, sempre tratto da Harris), uno dei villains più fascinosi e disturbanti della storia (eppure pare di scorgere qualche filo di gigioneria nella memorabile interpretazione di Anthony Hopkins). Film pionieristico nel sottogenere del thriller con serial killer, ancora ben lungi dall’esaurirsi. Terzo e finora ultimo film ad aver centrato l’en plein di Oscar nella cinquina principale (film, regia, attore protagonista, attrice protagonista e sceneggiatura): ne meritava almeno un sesto, quello al montaggio (di Craig McKay), capace di invenzioni e passaggi folgoranti come la sequenza in alternato del killer “al lavoro” ignaro che l’FBI stia per fare irruzione in casa sua, risolta con un notevole colpo di scena. Doppiaggio italiano ottimo nelle interpretazioni (in particolare l’Hannibal Lecter di Dario Penne) ma inspiegabile nelle traduzioni: ci vuole così tanto per capire che l’inglese “quid pro quo” equivale al nostro “do ut des” e non all’equivoco “qui pro quo”?
Il portaborse (Daniele Luchetti, 1991)
genere: Politico
Un professore di liceo diventa assistente di Cesare Botero, ministro socialista alle Partecipazioni Statali, cinico, arrogante, presuntuoso.
Guardare oggi, 15 anni dopo, “Il portaborse” è un po’ come mettere su la VHS di Italia-Argentina, semifinale dei Mondiali 1990 ed esultare al gol di Schillaci: nel senso che sì, si può anche tifare per i nostri eroi, ma dovremmo già saperlo come andrà a finire. E ora bisogna distinguere tra ciò che il film vale dal punto di vista artistico e ciò che rappresenta dal punto di vista storico-politico. Nel primo caso, va detto, non moltissimo: a parte la regia ordinata e ordinaria di Luchetti (da sempre più bravo in fase di sceneggiatura, della quale qui è coautore insieme a Rulli & Petraglia), “Il portaborse” punta tutto sulla verve oscura di Nanni Moretti, al primo ruolo in carriera lontano dai suoi film; Silvio Orlando inaugura la lunga serie di ruoli di docente; e poco altro. Ma nel secondo caso, possiamo tranquillamente affermare che si tratta del film politico più importante dell’ultimo ventennio del secolo. Addirittura stupefacente, al limite della preveggenza: il film uscì nella primavera del 1991, e le cronache raccontano che Giulio Di Donato, vicesegretario del PSI, andò a vederlo al cinema e uscendo commentò “Mi viene da vomitare”. Due mesi dopo, nel celebre congresso di Bari, iniziarono gli scricchiolii del Garofano, destinati a diventare crepe, fino al crollo che sarebbe arrivato l’anno dopo. “Il portaborse” arrivò perciò in un momento di relativa quiete della politica italiana, quando i vecchi partiti erano ancora (apparentemente) stabili; ebbe un grande successo di pubblico ancor prima che di critica, grazie al coraggio di denunciare i trucchi e i giochetti del sistema politico corrente. La preveggenza non riguarda soltanto la profezia di future sventure, ma anche (e soprattutto) il finale: Botero, nonostante tutto, viene rieletto e si presenta davanti alle telecamere con la moglie e il figlio, parla ispirato alla Nazione e alla fine, con uno sguardo da Alligatore, dice di voler “spazzare via” il marciume. A questo punto basta fare due più due.
Il muro di gomma (Marco Risi, 1991)
genere: Politico
Il 27 giugno 1980, al largo dell’isola di Ustica, un DC-9 dell’Alitalia cade in mare, facendo 81 vittime. La versione ufficiale parla di “cedimento strutturale”, ma appare chiaro a tutti che la tesi non regge. Una bomba, forse. O un missile.
Film-documento alla maniera di “Tutti gli uomini del presidente”, che cerca di coniugare il cinema civile con l’elogio del giornalismo d’inchiesta. Nonostante il bravo Corso Salani, il modello era un’altra cosa: qui vi mancano sia il ritmo, inutilmente spezzettato da superflue parentesi amoroso-sentimentali del protagonista e dalle fiacche gag con Fassari, sia la puntigliosa ricostruzione dei fatti, che si “ricorda” ad esempio di inserire l’elemento-Gheddafi solo nella penultima scena, nonostante esso sia di fatto il movente che provocò l’assurdo incidente. Trascurato e pieno di spifferi, vale più di quanto meriti: per il sincero impegno infuso da Risi jr. e come premio per aver comunque parlato di una delle vicende più squallide ed emblematiche della storia d’Italia. Come il suo coetaneo “Il portaborse”, non a caso firmato dalla stessa coppia di sceneggiatori, Rulli e Petraglia (qui coadiuvati da Andrea Purgatori, giornalista del “Corriere della Sera”, su cui è modellato il personaggio di Rocco Ferrante). Bello il finale, tanto bagnato e malinconico quanto era asciutto e trionfale quello del film di Pakula: perde l’Italia. Musiche di De Gregori; la voce del direttore del Corriere è quella di Dino Risi.
Cape Fear – Il promontorio della paura (Martin Scorsese, 1991)
genere: Thriller
Sam Bowden, avvocato di successo viene tormentato insieme alla sua famiglia da un suo ex cliente che, per una sua omissione, ha appena finito di scontare 14 anni di carcere per stupro.
La via scorsesiana al thriller commerciale arrivò in un momento di gran vena per il regista newyorkese, che incastonò “Cape Fear” tra due gemme come “Goodfellas” e “L’età dell’innocenza”. Gli obblighi di botteghino furono assolti con più di uno sguardo indietro al cinema classico americano: trattasi infatti di remake dell’omonimo film di J. Lee Thompson del 1962, con Gregory Peck nel ruolo dell’avvocato e Robert Mitchum ovviamente in quello del villain; anche le musiche di Bernard Herrmann sono identiche, riadattate per l’occasione da Elmer Bernstein. Scorsese ci aggiunge una regia più distorta e allucinata, perfetta per le atmosfere da thriller ed esaltata dall’aggressivo montaggio di Thelma Schoonmaker; De Niro impagabile psicopatico è il non plus ultra e surclassa il bietolone Nick Nolte nel confronto diretto, dando vita alla rivelazione Juliette Lewis (ancora minorenne) ad uno dei più alti momenti di tensione erotica del cinema anni ’90. L’abbassamento della soglia del puritanesimo consente a Scorsese di prendersi qualche libertà in più, come ad esempio infrangere la regola che impone che la famiglia dei “buoni” debba essere dipinta come un idilliaco nido da Mulino Bianco; interessante notare a proposito le due diverse rappresentazioni della violenza, qui e in “Goodfellas”: la messa in scena fredda e analitica del modus agendi della mafia lascia il posto al grand-guignol da opera di cassetta. Cammei per gli invecchiati Peck, Mitchum e Martin Balsam.
Heat – La sfida (Michael Mann, 1995)
genere: Thriller
Los Angeles. Neil è un ladro ipermetodico il cui motto è “Non fare entrare nella tua vita niente da cui tu non possa sganciarti in 30 secondi”. Vincent, altrettanto perfezionista, è il detective che gli dà la caccia.
Il miglior film di Michael Mann, il suo (quasi) capolavoro; film totale che richiama alla mente i grandi duelli della storia del cinema passati al setaccio dall’atmosferica antispettacolarità del regista di Chicago, qui alla realizzazione del progetto a cui aveva dedicato gran parte della sua carriera e sul cui soggetto aveva anche diretto nel 1989 il tv-movie “L.A. Takedown” (in italiano “Sei solo, agente Vincent”), lontano parente di questo. E’ indubbio che il successo e l’ottima riuscita del film dipendano in gran parte dallo scontro tra titani (sfida nella sfida) Pacino-De Niro, sul quale sono fiorite ingenerose leggende (tra cui quella dei capricci sul minutaggio altrui, che doveva essere perfettamente identico); il loro confronto al ristorante è tuttora l’unica scena in cui abbiano recitato uno di fronte all’altro (ma per settembre è prevista l’uscita in America di “Righteous Kill” di Jon Avnet, in cui hanno il ruolo di due anziani detectives); e, a proposito, l’understatement di De Niro e il gelido pathos infuso al suo Neil senza la minima concessione allo spettacolo – e perciò ancora più ammirevole – prevalgono a nostro avviso su un Pacino strepitoso come sempre ma sin troppo pacineggiante, e dunque uguale a se stesso. Detto ciò, “Heat” è anche molto altro: un ottimo disegno dei personaggi secondari (spicca Ashley Judd, magnifica protagonista assoluta e silenziosa di una scena che vale metà film), una cura certosina dei dialoghi, come sempre in Mann (“Quando piove, ti bagni”: mai ascoltate perle di saggezza più secche sulla dura arte del crimine); un apparato tecnico di prim’ordine (fotografia di Dante Spinotti, musiche di Elliott Goldenthal) e mano immobile nel governare con sicurezza due ore e tre quarti di action-movie (con grandi vette di genere, come la violentissima sparatoria dopo la rapina in banca) senza mai tradire la propria coerenza intellettuale. Splendido film di guardie e ladri dove ogni personaggio dà l’impressione di poter aspirare a un posto anche nel mondo reale; e una morale, semplice e inattaccabile, detta da Nate (Jon Voight) a Neil: “Lui può riuscire o fallire; tu hai una sola possibilità”.
I soliti sospetti (Bryan Singer, 1995)
genere: Thriller
Roger “Verbal” Kint è uno dei due superstiti di una tentata rapina a una nave ormeggiata nel porto di San Pedro, finita in strage. A lui si affida la polizia di Los Angeles per scoprire il mandante e l’esecutore del massacro.
Rarissimo caso di film fondato su un gigantesco imbroglio, un vero e proprio inganno allo spettatore al quale, più che una falsa pista, si dà in pasto una falsa storia. Fruttò un Oscar (meritato? ma sì) alla sceneggiatura di Christopher McQuarrie (del quale, da lì in poi, si sono perse le tracce, come fosse un Keyser Soze qualsiasi), alla quale va ascritto quasi interamente il merito del buonissimo risultato di un film che ha spostato di molto in avanti la soglia di tollerabilità del fattore colpo di scena al cinema. Bryan Singer, non ancora autore di blockbuster di successo, si applica per distinguere “I soliti sospetti” dalla media dei banali gialli-thriller, ma la sua regia passa sotto traccia al cospetto di una storia volutamente (è questo il bello) cervellotica e difficile da seguire. Qualsiasi presunto messaggio o significato nascosto, perciò, è completamente inutile. La chiave del film sta nell’interrogatorio del marinaio in ospedale, a patto che voi conosciate l’ungherese. Il 1995 fu l’anno dell’esplosione di Kevin Spacey che, oltre all’Oscar come “Verbal” Kint, diede anche corpo al memorabile personaggio di John Doe in “Se7en”, nel miglior finale di film degli anni ’90.