Getaway, il rapinatore solitario (Sam Peckinpah, 1972)
genere: Thriller
Uscito di galera con l’“aiuto” della moglie, assai convincente con un uomo d’affari che riesce a farlo rilasciare, il rapinatore Doc McCoy prende parte ad un grosso colpo in banca per sdebitarsi; ma qualcosa va storto e i coniugi McCoy sono costretti a scappare col malloppo, nel tentativo di raggiungere la frontiera del Messico prima di essere catturati dalla polizia o dagli altri complici.
Ottavo film di Sam Peckinpah, uno dei suoi più famosi e di successo; action-thriller grandi firme in cui, tra i collaboratori, spiccano i nomi di Walter Hill alla sceneggiatura, Walter Murch al montaggio (eccellente) e Quincy Jones alla colonna sonora (gran classe). Il signore e la signora McCoy sono due tra i personaggi più compiuti mai comparsi in Peckinpah, che qui si diverte a scompaginare le tradizionali dinamiche di coppia in fuga per mostrarli veri, litigiosi, “problematici”; al road-movie non partecipano due caratteri monodimensionali ma invece in costante crescita, che hanno sia uno scopo pratico (raggiungere il confine del Messico) che uno implicito (ritrovarsi come coppia, superare le reciproche diffidenze passate e presenti, insomma raggiungere la felicità). Regia riposata ma capace di momenti di alto stile, come la scena della rapina. La volontà di gabbare l’ordine costituito (i rapinatori “cattivi” e soprattutto la polizia) ha la meglio, in fase di plot, sul finale un po’ risaputo à la “Bonnie & Clyde”. Steve McQueen parla poco e parla pesante; Ali McGraw, splendida, ha momenti in cui toglie il fiato. Un fiacchissimo remake nel 1993 con Alec Baldwin, Kim Basinger e James Woods. Mai rubare alla stazione e poi prendere il treno.
Assassinio sull’Orient Express (Sidney Lumet, 1974)
genere: Giallo
Sul celeberrimo Orient Express, in viaggio da Istanbul verso Parigi ma bloccato da una bufera di neve, viene commesso un omicidio. Il detective Hercule Poirot, casualmente tra i passeggeri, indaga.
Dall’omonimo romanzo di Agatha Christie, più adatto ad una trasposizione teatrale che cinematografica. Per agevolarsi l’arduo compito, il produttore Richard Goodwin scelse un gran direttore d’attori (da “La parola ai giurati” in poi) come Sidney Lumet e un cast sfarzoso in cui nei ruoli minori capita che ci siano Ingrid Bergman, Vanessa Redgrave o John Gielgud. Ha il difetto di moltissimi mystery movies: alla seconda visione emergono tutte le inevitabili smagliature del faticoso passaggio dalla cellulosa alla celluloide, in particolare una prima parte introduttiva interminabile e laboriosissima nel dover far tenere a mente allo spettatore ogni faccia, ogni nome, ogni ruolo. Comunque gradevole e incisivo nella – ben nota – conclusione.
Lo squalo (Steven Spielberg, 1975)
genere: Thriller
Nelle acque della tranquilla Amity Island, isoletta al largo della East Coast che campa di turismo, uno squalo minaccia i bagnanti. Il sindaco nega il divieto di balneazione, nonostante le pressioni del capo della polizia.
Uno dei più grandi successi commerciali di ogni tempo, il primo colpo grosso ai box office del 29enne di Cincinnati Steven Spielberg. Addirittura elementare nella costruzione della suspence, è tuttora un esempio da manuale per come adopera, accorciandoli o dilatandoli, i tempi cinematografici per giungere all’obiettivo (che in questo caso è semplice intrattenimento); strepitoso anche l’uso della musica di John Williams, arcinota paraninfa dello squalo del quale accompagna le soggettive subacquee. Più in profondità, si ritrovano già alcuni dei temi in futuro cari a Spielberg: il rispetto che l’uomo deve alla natura, la fiducia nella tecnologia e nel progresso, l’esortazione all’uomo a superare le proprie paure (Brody è idrofobo); ideali che vanno di pari passo con una classica storia di amicizia virile che decretò lo strepitoso exploit ai botteghini del film (260 milioni di dollari incassati solo in America a fronte di una produzione di appena 7 milioni).
L’inquilino del terzo piano (Roman Polanski, 1976)
genere: Thriller
Trelkovsky, mite quarantenne, va a vivere in affitto in una topaia appena liberatasi per il suicidio (e la conseguente morte in ospedale) dell’ex inquilina. Presto avrà a che fare con dei vicini di casa particolari.
Il ritorno di Roman Polanski sul luogo del delitto (il condominio che è ovviamente situato, nell’immaginario cinematografico, l’isolato accanto a quello infernale di “Rosemary’s Baby”) avviene stavolta in Francia, un anno prima di quel suo sciagurato 1977 che è recentemente tornato agli oneri della cronaca a causa del suo arresto (a margine, una notizia che è stata anch’essa presa da alcuni quotidiani italiani e strumentalizzata a fini politici, per la serie “chi è con Polanski è di sinistra”; che paese del cazzo). Il film è ambiguo, angosciante, contorto, debitore di parecchie citazioni ai maestri della suspense (Hitchcock su tutti) e comunque portatore di una ventata di originale inquietudine che formerà poi il significato dell’aggettivo “polanskiano”. L’incubo del quotidiano, caposaldo della poetica del regista, trascende (scade?) nel metafisico e nell’irrazionale vent’anni prima delle strade perdute di David Lynch, con esiti inferiori alle promesse: se i primi sessanta minuti sono impeccabili per tenuta narrativa, semina del pathos e incisività delle classiche punte grottesche polanskiane, la seconda parte si avvita in un lungo delirio da cui non è escluso neanche qualche effettaccio. Polanski si auto-analizza ponendo se stesso al centro della scena: un personaggio polacco, con ambizioni da regista (possiede una cinepresa che gli viene rubata), angariato dai colleghi (sfumature razziste), fondamentalmente solo con i suoi fantasmi. Regista geniale e problematico, e non tocca qui giudicare l’uomo.
Sindrome cinese (James Bridges, 1979)
genere: Thriller
Mentre una troupe televisiva è in visita alla centrale nucleare di Ventana, scoppia un incidente. Forse. Un direttore coscienzioso cerca di vederci chiaro.
Il più noto film di James Bridges, regista e scrittore televisivo morto prematuramente nel 1993 a 57 anni, è un thriller solido e ambizioso, per buona parte riuscito, che fa leva su una delle paure più inscalfibili della popolazione americana e dunque mondiale (la contaminazione nucleare), un po’ denunciandola e un po’ strumentalizzandola. Oscuro e finanche caotico nella prima parte, fondata sull’inevitabile aura di mistero attorno all’incidente d’apertura, diventa più tradizionale e lineare strada facendo, prima di approdare ad un finale di ottima scrittura e montaggio. Un film di attori, anche: Jack Lemmon vinse il premio a Cannes e fu nominato all’Oscar insieme a Jane Fonda; Michael Douglas, cameraman barbuto, è anche produttore. Verosimile ma anche calcolatore nel suo essere per nulla consolatorio. La “sindrome cinese” che dà il titolo alla pellicola è il nome fantasioso attribuito in America ad un’ipotesi scientifica, parecchio improbabile ma non matematicamente impossibile, secondo la quale la fusione del nocciolo di un reattore nucleare porterebbe ad una fuoriuscita di massa fusa che bucherebbe il pavimento della centrale e si addentrerebbe all’interno della Terra; fino a sbucare su un suolo agli antipodi degli Stati Uniti, cioè in Cina.
Attrazione fatale (Adrian Lyne, 1987)
genere: Thriller
Un rampante avvocato con bella famigliola incontra per caso una bionda femme fatale e ci va a letto senza farsi troppi problemi, sottovalutando le imprevedibili conseguenze del caso.
Pochi autori sono così rappresentativi degli anni ’80 USA come il britannico Adrian Lyne, regista lanciato dal successone di “Flashdance” (1983) e quindi abilissimo a vellicare i pruriti dello spettatore con “9 settimane e 1/2″. Un anno dopo porta il suo meccanismo a vette di perfezione con “Attrazione fatale”, micidiale frullato di reaganismo e yuppismo che concentra in due ore tutti i desideri e le paure dell’occidentale medio: l’affermazione sociale (che ha come immediata conseguenza l’affermazione sessuale), la mancanza di sicurezza e la voglia di giustizia privata, il terrore ipocrita del maschio dominante di “perdere tutto”. Film accattivante nella confezione e nel ritmo quanto odioso nella sua sempre crescente misoginia, che addossa tutte le colpe alla matta di turno assolvendo del tutto il buon Michael Douglas, che ne esce intonso come un bambino. Non stupitevi, perciò, se vi ritroverete più o meno inconsciamente a fare il tifo per Glenn Close. Dopo il boom, gli anni ’90 accompagneranno Lyne in quell’oblio da cui non sarebbe mai dovuto uscire.