JFK (Oliver Stone, 1991)
genere: Politico
Il 22 novembre 1963, a Dallas, il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy rimase ucciso in un attentato. Il 27 settembre 1964, dopo dieci mesi di indagini, la commissione presieduta dal presidente della Corte Suprema Earl Warren concluse che l’unico esecutore materiale dell’omicidio era stato Lee Harvey Oswald, ucciso due giorni dopo il fatto da Jack Ruby, un gestore di night club. Nel 1966, il procuratore distrettuale di New Orleans Jim Garrison, non persuaso dalla versione ufficiale, riaprì le indagini con una nuova inchiesta.
Il film più didattico di Oliver Stone e, forse, quello che più di altri merita di essere mostrato nelle scuole: come si cerca di dimostrare che il più rivoluzionario presidente americano del dopoguerra fu ucciso non da un folle solitario ma da un complotto ordito in alto, molto in alto; una tesi ardita con cui si osano mettere in discussione i vertici e i principi stessi su cui sono fondati gli Stati Uniti d’America. Si sa che quando può Oliver Stone non bada a spese né a misuratezze d’ogni tipo; la sua è un’arringa-fiume in cui viviseziona con pignoleria da secchione la storia ch’egli identifica come punto di partenza del declino dell’Impero Americano; Stone è, indubbiamente, Jim Garrison molto più profondamente di quanto sia stato il soldato Chris Taylor di “Platoon” o il Buddy Fox di “Wall Street”. Comunque la pensiate, film enciclopedico di uno dei momenti cardine della nostra Storia. Cast all-stars con sfoggio di divi anche per ruoli minori (il senatore Walter Matthau è presente in una sola breve scena), ma una citazione obbligatoria la merita il signor X di Donald Sutherland, personaggio forse più appartenente alla mitologia contemporanea che alla cronaca, ma perfettamente stoniano nella sua cauta e americana allure di deus ex machina del ventesimo secolo.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970)
genere: Politico
Un ispettore di polizia uccide la sua amante tagliandole la gola per dimostrare che, pur avendo seminato di indizi la scena del delitto, il potere che deriva dal suo ruolo istituzionale lo rende al di sopra di ogni sospetto.
Il film più noto di Elio Petri, nonché quello che ha ricevuto i massimi riconoscimenti internazionali (Gran Premio della Giuria a Cannes e Oscar come miglior film straniero). Nerissimo apologo kafkiano (come da citazione finale) di implacabile lucidità nel sintetizzare la malsana ambiguità del potere che deriva dal Potere, inteso socialisticamente come inscalfibile ordine precostituito che porta con sé ab origine il cattivo germe del sopruso, della prepotenza e della violenza. Non è del resto importante ai fini della storia conoscere le generalità del protagonista, misero e paradigmatico burattino esponente di una nobiltà di toga destinata a sopravvivere anche a se stessa in saecula saeculorum. La visione del mondo (non solo dell’Italia) di Petri & Pirro generò accesissime polemiche in un Paese in cui gli anni ’60 si erano simbolicamente chiusi col misterioso volo di un anarchico ferroviere dalla finestra di una questura (riguardo alla vicenda Petri girò nello stesso anno “Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli”, disponibile su Youtube). Cinematograficamente parlando è un film potentissimo girato con sublime ironia, animato da un Volonté torrenziale e impreziosito dal geniale commento musicale di Morricone; la sua attualità aumenta paradossalmente con lo scorrere del tempo.
Il dottor Stranamore (Stanley Kubrick, 1964)
genere: Politico
Per folle ordine del generale Jack D. Ripper, i 34 B52 dell’aviazione americana, di base attorno ai confini sovietici, partono per bombardare l’URSS. Il governo americano si riunisce in gran fretta e cerca di impedire la guerra nucleare.
C’è un momento preciso in cui “Il dottor Stranamore” – sesto film di Stanley Kubrick – si fa capolavoro meritevole di finire contemporaneamente nelle cineteche come opera d’arte e nei libri di storia come impareggiabile documento di un’epoca: è quando il generale Turgidson incontra al Pentagono il presidente Muffley e lo informa dell’accaduto, dando il via ad un dialogo straordinariamente teso e tremendo tra due persone in piedi sull’orlo della Catastrofe che si affacciano a guardare il fondo; eppure, un dialogo attraversato da un umorismo carsico ancora più efficace perché – come le regole della satira insegnano – si contrappone alla più terribile delle sciagure per l’uomo del 1964: l’incubo atomico. Nella sua sontuosa cornice di commedia nera infiorettata con dialoghi d’alta scuola (come quello, impeccabile, sul distributore di Coca Cola), è un film lancinante e disperato che ha il coraggio di affondare il coltello nel più inaccettabile dei finali. Spietati fendenti all’America paranoica del maccartismo e dell’orgoglio militaresco e alla società moderna sempre più affascinata da assurde logiche di egoistica sopravvivenza: Kubrick le scruta col suo occhio cinico e pessimista guardandosi bene dall’improvvisarsi moralizzatore di alcunché. Il personaggio del dr. Strangelove, stratega e consigliere del presidente, transfugo in America dopo un nebuloso passato in Germania, è di quelli su cui si potrebbero scrivere libri interi: semplicemente un punto d’arrivo di un esponenziale climax farsesco o qualcosa di più, la predizione di un futuro in cui l’America (il mondo) ricadrà negli errori-orrori che essa stessa ha cancellato (la metamorfosi finale)? Il miglior film satirico di tutti i tempi; la prudenza con cui tuttora il cinema si misura con questo genere non può che deporre, per l’ennesima volta, a favore del Maestro.
Il caso Moro (Giuseppe Ferrara, 1986)
genere: Politico
Cronaca dei 55 giorni che intercorsero tra il rapimento del segretario della DC Aldo Moro e l’uccisione dei cinque agenti che componevano la sua scorta (16 marzo 1978 ) e il ritrovamento del cadavere nel bagagliaio di una Renault rossa in via Caetani (9 maggio 1978).
Ispirato al libro “I giorni dell’ira” di Robert Katz, che ha anche collaborato al copione. Arido come un mattinale di questura ma puntigliosamente documentato a serio rischio di verbosità, “Il caso Moro” è probabilmente il film definitivo su uno dei misteri politici più oscuri della storia patria, nonché una delle pagine più nere e umilianti della nostra repubblica. Fedele alla sua vocazione cronachistica, Ferrara realizza un lungo diario di una prigionia con pochissimi svolazzi stilistici, perlopiù dedicati al cinismo dei compagni di partito (la carrellata sui volti che leggono in Parlamento la prima lettera; il macabro tempismo del manifesto commemorativo), e con tono di voce uniforme s’impone di raccontare pianamente quei 55 giorni di primavera, non tralasciando nessun dettaglio (la disputa su Gradoli paese o via, il fioraio che si ritrova le gomme bucate) ma cadendo a più riprese nel didascalismo davanti alle riunioni DC o ai commenti della moglie Nora: stile da fiction, si direbbe oggi. Gianmaria Volonté (Orso d’Argento a Berlino), che già era stato Moro dieci anni prima nel lugubre “Todo modo” di Petri, spadroneggia nei panni ormai familiari del segretario DC, risultando in fin dei conti l’unico personaggio veramente tridimensionale del film, circondato da carcerieri e colleghi che la sceneggiatura fa apparire – forse anche in un empito di denuncia – come insignificanti figurine schiacciate dal peso della Storia e delle loro decisioni.
La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971)
genere: Politico
Lulù Massa, stachanovista della pressa dal problematico ménage familiare, si lascia trascinare nelle proteste e negli scioperi da alcuni suoi “compagni” più giovani e riottosi.
Palma d’Oro a Cannes 1971 ex-aequo con un altro film di Volonté, “Il caso Mattei” di Rosi. Sono passati trentasei anni e, nonostante tante rivisitazioni, retrospettive, “come eravamo”, molti dei quali recentissimi (il cinema italiano d’oggi sa solo guardare al passato), “La classe operaia va in paradiso” rimane ancora il film italiano che meglio ha catturato il clima e gli umori delle cupe stagioni politiche e sociali degli anni ’70. Rimanendo fedele, un anno dopo l’”Indagine”, ai temi cari a Elio Petri (il potere e la nevrosi generata dal possederlo o ambirlo), affonda e rigira impietosamente il coltello nella piaga della lotta di classe, individuandone il germe, isterico e semplicisticamente sloganistico, dal quale nasceranno di lì a poco gli anni di piombo. Animata a tutto vapore dalla sceneggiatura firmata con Ugo Pirro, una satira violenta e deformante con alte citazioni che caricaturizzano la cultura operaia (nelle inquadrature iniziali delle statue par addirittura di cogliere dei riferimenti ad Ejzenstein), con un Volonté maiuscolo che passa senza fare una piega dall’accento siciliano a quello milanese. Infine, il motore per una riflessione generale sul depauperamento mentale e creativo del nostro cinema, chiuso nelle sue sceneggiature goffe e inesistenti, finito ad evitare come la peste bubbonica qualsiasi anche minimo rimando alla realtà sociale che non sia già stato precedentemente rimasticato dai giornali e dalla tv. Banalissimo dirlo, ma oggi film così non ne facciamo più.
Frenzy (Alfred Hitchcock, 1972)
genere: Thriller
Un ex ufficiale della RAF viene scambiato dalla polizia per uno psicopatico serial killer strangolatore di donne, di cui è peraltro amico ed ex collega.
Frenzy = pazzia. Penultimo film di Alfred Hitchcock, incamminato verso l’inverno della propria esistenza, dal quale questo film è fatalmente influenzato: benché non manchino i tocchi di classe (le scene dei ritrovamenti dei cadaveri) e le stille di sardonico umorismo (la disastrosa cucina della signora Oxford), tutto è complessivamente più lento, compassato e spento della media. Hitchcock si misura con gli anni ’70, periodo di fondamentali cambiamenti anche per il cinema britannico, mantenendo un apprezzabile classicismo ma non riuscendo a nascondere un certo disorientamento nella percezione dei gusti del pubblico, arte di cui era un tempo maestro (il film non ebbe successo). Punti a favore: la consueta sceneggiatura di ferro (a firma Anthony Shaffer, non l’ultimo arrivato) e il malsano connubio cibo-sessualità, che striscia lungo tutto il film accentuandosi nella figura di Richard Rusk, eventuale alter ego di Hitch medesimo nella sua ossessione morbosa e fanciullesca verso l’eterno femminino. Attori poco conosciuti al di fuori del mondo teatrale: fa centro la malvagia maschera del rosso Barry Foster. Fa un certo effetto ascoltare le parolacce in un film di Hitchcock.