Suspense (Jack Clayton, 1961)
genere: Thriller
Assunta per accudire due bambini orfani di 8 e 9 anni in un’enorme villa fuori Londra, una premurosa governante dalla fervida immaginazione viene ossessionata dalle apparizioni di un uomo e una donna che avevano vissuto in passato in quella casa e vi erano poi morti in circostanze misteriose.
“The Innocents” (meglio dell’incongruo titolo italiano “Suspense”) è la più nota e riuscita trasposizione cinematografica del famoso romanzo breve di Henry James “Giro di vite”, benché quest’ultimo abbia lasciato moltissime tracce nel fertilissimo filone dell’horror soprannaturale vivo e vispo ancora oggi (da “The Others” in giù). Film imperfetto ma conturbante, che trasferisce felicemente le atmosfere da horror gotico del testo originale, impreziosendole con un taglio espressionistico che rimanda inconsciamente al capolavoro “La morte corre sul fiume” di Charles Laughton, risalente a qualche anno prima. Qualche collaborazione illustre (Truman Capote è co-sceneggiatore) per quella che è l’opera di maggior risalto di Jack Clayton, onesto regista britannico che riesce a trasmettere sincera inquietudine negli ultimi venti minuti, nonostante il tessuto narrativo risulti a tratti un po’ sfilacciato. Deborah Kerr, comunque, mette più di una pezza, rendendo bene in scena l’ambiguità della Miss Giddens del libro. Tra le altre cose, suggerisce che poche cose in natura possono essere più cattive e crudeli di un bambino.
Salvatore Giuliano (Francesco Rosi, 1962)
genere: Politico
Vita, opere e morte di Salvatore Giuliano, bandito di Montelepre che spadroneggiò in Sicilia nella seconda metà degli anni Quaranta, coperto e protetto dalle autorità politiche locali e non solo.
“Bisogna avere il coraggio di andare in fondo”. Una frase da titolo di giornale, buona casomai per la retorica di un’arringa da tribunale: il film di Francesco Rosi allarga sconsolatamente le braccia. Impossibilitato a fare del cinema d’inchiesta, perché siamo in Italia e chi tocca i fili muore, “Salvatore Giuliano” è una biografia in flashback che nella seconda parte – la migliore – si fa film di denuncia: non di un uomo o di un partito ma di un Paese intero, appestato da un clima di collosa omertà che soffoca e sconforta quelli che provano ad andare contro corrente. Giuliano si vede solo da morto, è un fantasma, un’Idea attorno alla quale si scalmanano poveri cristi, pescicani e tutori della legge; è il simbolo di un sistema marcio che è vecchio come la Repubblica, battezzata il 1° maggio 1947 con l’eccidio di Portella della Ginestra (scena memorabile). Narrato in andirivieni, con tre toni diversi di bianco e nero per le parti in flashback, il ritrovamento del cadavere e il processo di Viterbo. E non a caso uscì con la censura politica ai minori di 16 anni.
Le mani sulla città (Francesco Rosi, 1963)
genere: Politico
Napoli (ma potrebbe essere dappertutto): sullo sfondo del boom economico e della conseguente speculazione edilizia, il partito di maggioranza si interroga sotto elezioni sull’opportunità di ricandidare e nominare come assessore il costruttore Edoardo Nottola, coinvolto in un’inchiesta sul crollo di un palazzo fatiscente in una zona degradata della città.
In tempi bui di anti-politica e di intere classi dirigenti che brancolano nel buio (salvo poi riavvicinarsi fatalmente alla “gente” tra qualche mese per la sospirata campagna elettorale), la visione de “Le mani sulla città” – che proprio nel 2013 compie 50 anni di vita e ne dimostra sì e no 5 – mette addosso una strana sensazione di disincanto, e a tratti perfino disgusto, da cui però è molto difficile allontanarsi. Il film sembra girato l’altro ieri per la lucidità e l’attualità del quadro, e risulta perciò incredibilmente avvincente: speculazione edilizia, conflitti d’interessi, commissioni d’inchiesta che poggiano sulle stesse precarie fondamenta dei palazzi crollati. Parabola universale (che va oltre la stretta attualità) su quel Potere che da decenni riesce a preservare sé stesso e rimanere a galla grazie a un cinico realismo e a uno spietato senso pratico, come emerge nello straordinario e illuminante dialogo tra il futuro sindaco De Angelis e il riottoso consigliere Balsamo. Rosi non ha paura di affondare le mani nel fango e di sbilanciarsi nella propria tesi usando toni da comiziante, consapevole che la retorica ha nobili origini ed è lo strumento migliore per dare voce alla denuncia e all’indignazione. Ne esce così un’orazione civile vibrante e appassionata, così com’era dolente e rassegnato il tono del funebre “Salvatore Giuliano”, realizzato appena l’anno prima. Leone d’Oro a Venezia 1963.
A ciascuno il suo (Elio Petri, 1967)
genere: Politico
In un paesino vicino Palermo vengono trovati morti due stimati professionisti, un medico e un farmacista. Un professore indaga sull’accaduto.
Dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia; prima collaborazione tra Elio Petri e Gianmaria Volonté. Il film è amarissimo nel raccontare l’avvilente oggigiorno di una terra disgraziata, umiliata e offesa, popolata di mezzi figuri che hanno scelto di diventare ombre (si veda lo splendido finale) per essere al riparo da qualsiasi impulso verso la verità. I luoghi comuni sulla Sicilia sono duri a morire e col tempo, anche a causa della fattiva collaborazione dei suoi stessi abitanti, hanno preso le sembianze di granitici dati di fatto: chi, nonostante tutto, conservasse ancora la voglia di lottare provi a far vedere questo film a quanta più gente possibile. La lezione di Sciascia, che dell’opera di Petri è il padre putativo, ammonisce l’isola da ormai quarantadue anni, perché non è questione di mafia (mai nominata nel film nonostante se ne senta costantemente il puzzo), di uomini d’onore o di delitti qualsiasi: ciò che strangola la Sicilia e la uccide per asfissia è la sua indifferenza, la sua latente ignoranza, l’orrenda pulsione a voltare la testa dall’altra parte per continuare ad accettare la sua immutabile insicurezza. Il personaggio di Volonté, al primo ruolo maturo dopo i successi di cassetta con Sergio Leone, è il simbolo per antonomasia della crisi e della solitudine dell’intellettuale di sinistra, perso nei suoi libri ed ormai alieno, suo malgrado, dal contesto sociale e culturale nel quale gli è difficile soltanto concepire l’integrazione. Premio a Cannes 1967 per la miglior sceneggiatura.
Una squillo per l’ispettore Klute (Alan J. Pakula, 1971)
genere: Thriller
John Klute, ex poliziotto e ora detective privato, viene inviato a New York per indagare sulla scomparsa del suo amico Tom Gruneman; lì incontra Bree Daniels, una call-girl che aveva conosciuto Gruneman e potrebbe fornirgli indicazioni interessanti.
Thriller atipico a cui poco cale della storia e delle indagini, “Una squillo per l’ispettore Klute” (una volta tanto, è più appropriato il titolo in italiano: il vero personaggio principale è Bree e non l’ispettore) può entrare a pieno diritto nel discorso sulla riformulazione del genere thriller-poliziesco che nei primi anni ’70 fu radicalmente rivoluzionato. La regia di Alan J. Pakula, stilizzata e asciutta fino all’essenziale, è funzionale alla creazione di un clima teso e cupo, esaltato dalla fotografia notturna, in cui tuttavia l’immagine e lo stile contano più dell’intreccio e della blanda analisi sociologica che si tenta di supporre dalla figura borderline della protagonista (peraltro in controtendenza, nella sua spregiudicatezza solo apparente e nella sua ricerca di protezione, con i modelli femminili che si stavano imponendo in quegli anni). Sutherland mono-espressivo viene soggiogato da una Jane Fonda di luna buona, che arrivò al suo primo Oscar prima di diventare “Hanoi Jane”.
Sbatti il mostro in prima pagina (Marco Bellocchio, 1972)
genere: Politico
Milano, 1972: a seguito di un delitto a sfondo sessuale di cui è vittima una studentessa, il caporedattore di un quotidiano di destra monta una violenta campagna di stampa contro un militante comunista che aveva una relazione con la ragazza, accusandolo di essere l’assassino.
Quarto film di Marco Bellocchio, perfettamente inserito nel filone del dramma politico che all’inizio degli anni ’70 ottenne successo e onori in Italia e all’estero, grazie al suo approccio diretto (fino a risultare sgradevole) nell’affrontare la società contemporanea, con uno stile registico incalzante e appassionato anche dal punto di vista audio-visivo. Agli occhi di uno spettatore di fine 2011, “Sbatti il mostro in prima pagina” risulta in un certo senso familiare, e non solo per il nome della testata qui protagonista (“il Giornale” – un quotidiano milanese di area borghese ma piuttosto tendente a destra che, è bene precisarlo, fu fondato da Indro Montanelli solo nel 1974, dunque due anni dopo questo film), ma anche per l’atmosfera mefitica e amorale che regna sovrana dall’inizio alla fine, mettendo in scena, con i toni paranoidi tipici dell’epoca, la finzione del Potere a tutti i livelli. Se le forze dell’ordine reprimono e arrestano degli innocenti e se la magistratura si fa influenzare dall’opinione pubblica; se l’informazione infine non informa ma distorce, vellicando gli umori più bassi dei propri lettori di cui non ha alcuna stima, cosa rimane? Il punto di vista di Bellocchio, di cui sono storicamente ben note le simpatie radicali, è equidistante e non risparmia ironie né critiche agli ambienti della sinistra extra-parlamentare; ogni tanto eccede nella retorica ma ha la giusta aggressività e il tempismo di affrontare prima di altri un tema ancora di stringente attualità. Straordinario Volonté che affina ulteriormente il già complesso personaggio del caporedattore Bizanti (“Quando inizierai a capire la differenza tra quello che si pensa e quello che si dice?”). Nel prologo quasi documentaristico sul clima degli Anni di Piombo, spicca il veemente comizio di un giovane e barbutissimo Ignazio La Russa, ripreso durante una manifestazione di Maggioranza Silenziosa (un comitato anti-comunista che raggruppava liberali, monarchici, democristiani e fascisti).